Foto: Gratteri Nicola © Dayana Chiocca
di Miriam Cuccu
La proposta di riduzione di un’inchiesta a soli tre mesi “segnerebbe la fine delle indagini per mafia. Tre mesi non bastano neppure per dimostrare un’estorsione. Siamo al ridicolo”. E’ la protesta del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri (in un’intervista al Fatto Quotidiano). La norma in questione obbliga il pm “a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi” dalla scadenza delle indagini preliminari. Diversamente, il procuratore generale dovrà disporre “con decreto motivato l’avocazione delle indagini” e l’inchiesta scivolerebbe via dalle mani del pm. Un giro di vite che ha fatto preoccupare anche a Palermo: il procuratore generale Roberto Scarpinato, infatti, ha parlato del rischio di “disincentivare il contributo dei cittadini all’accertamento dei reati. Non solo quelli di mafia”.
“Noi sproniamo continuamente i cittadini a collaborare con lo Stato nella lotta alle mafie – prosegue Gratteri – chiediamo che denuncino, che non siano omertosi. Davvero molto grave lanciare il messaggio che lo Stato adesso vuole l’opposto, ovvero punire l’ imprenditore che ha la prontezza di registrare col cellulare chi lo minaccia o gli chiede il pizzo. Anche perchè gli avvertimenti avvengono una volta sola, poi arrivano le bombe”. Secondo il magistrato l’emendamento rappresenta “un grande regalo ai criminali”, e i provvedimenti contenuti nella riforma del processo penale renderebbero di fatto “impossibili le indagini di mafia”. “Questa proposta è un grande deterrente per chi vuole aiutarci nella lotta alle mafie: non vi è maggiore tutela del privato, non vi è tutela delle indagini. In più lede il diritto di informazione” dice Gratteri.
“Ho avuto modo – prosegue il procuratore aggiunto – di vedere da vicino come lavora il Parlamento: sembra un lavandino otturato. Ci sono troppe riforme, troppi decreti legge che ingolfano tutto, e tante proposte sullo stesso tema. Anche se poi si arena tutto. In questo caso c’ è da sperarci. Le norme di cui stiamo parlando sarebbero un gran regalo alle mafie”.
Tra le varie norme, il ddl in principio citava testualmente: “Chiunque diffonda, al fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, riprese o registrazioni di conversazioni svolte in sua presenza e fraudolentemente effettuate, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni”. Il Pd, però, dopo le polemiche dei giorni scorsi ha presentato un emendamento di modifica per evitare che i giornalisti rischino il carcere utilizzando, nell’ambito del diritto di cronaca, conversazioni registrate di nascosto. Restano, però, ancora diversi punti sulla riforma del processo penale che continuano ad allarmare i magistrati.
28 luglio 2015