di Gianni Barbacetto
“Riesamineremo le spese e le risorse, per non fare più promesse non finanziate. I progetti già avviati superano di 10 miliardi i benefici prevedibili”. A parlare così del Tav Torino-Lione non è l’analisi costi-benefici del professor Marco Ponti, né la pur prudente disamina del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. È invece Elisabeth Borne, ministro dei Trasporti francese. Era il 19 luglio 2017. Alle parole sono seguiti i fatti, perché la Francia ha congelato fino al 2038 (le calende francesi) l’impegno a eseguire i lavori sulla sua tratta nazionale del Tav.
Lavori rimandati al 2038. Lo ha stabilito il 1° febbraio 2018 il Coi (Conseil d’orientations des infrastructures), che ha escluso la tratta nazionale francese della Torino-Lione dai progetti infrastrutturali programmati fino al 2038: “Non è stata dimostrata l’urgenza di intraprendere questi interventi, le cui caratteristiche socioeconomiche appaiono chiaramente sfavorevoli in questa fase. Sembra improbabile che prima di dieci anni non vi sia alcun motivo per continuare gli studi relativi a questi lavori che, nel migliore dei casi, saranno intrapresi dopo il 2038”. Il Coi conferma, del resto, il rapporto della Commissione “Mobilité 21” che già nel 2013 aveva affermato che le opere di accesso dalla Francia alla galleria transfrontaliera non erano giudicate prioritarie.
Ma questo non è un problema solo francese. Perché i 33 chilometri di linea per entrare nel supertunnel al di là delle Alpi, congelati “nel migliore dei casi” fino al 2038, comprendono anche i “tunnel a due canne di Belledonne e di Glandon”. Chiaramente citati nell’Accordo Italia-Francia che è il trattato bilaterale su cui si basa il Tav. Belledonne e Glandon sono 14 chilometri di galleria a doppia canna, tutti a carico del governo di Parigi. Sono le opere che giustificano il fatto che l’Italia paga di più la galleria di base: il 58 per cento della spesa totale (che è di 9,6 miliardi), benché il tratto italiano sia solo il 21 per cento del tunnel (12,5 chilometri), che al 79 per cento (45 chilometri) è in territorio francese.
Il risultato è che l’Italia paga il supertunnel 280 milioni a chilometro, la Francia 60 milioni a chilometro. Ma se i francesi non fanno la loro parte, rimandandola (“nel migliore dei casi”) al 2038, l’Accordo – articoli 4 e 18 – è di fatto violato. Perché mai l’Italia dovrebbe mettere i suoi soldi al posto della Francia? È la asimmetria degli impegni denunciata ieri anche da Conte: “C’è un’iniqua ripartizione degli oneri finanziari, giustificata con il fatto che la Francia ha una tratta più lunga da ristrutturare”.
Violato l’Accordo con l’Italia. C’è poi un altro argomento che l’Italia può sfoderare nella prossima trattativa con la Francia: la violazione dell’articolo 16 dell’Accordo, che impone la disponibilità dei finanziamenti per avviare i lavori. Il governo di Parigi non ha stanziato la sua parte per il tratto transfrontaliero, cioè il supertunnel. In queste condizioni, è impossibile lanciare le gare, come invece vorrebbe Telt (la società italo-francese nata per realizzare la galleria) nel consiglio d’amministrazione convocato per lunedì 11 marzo. I favorevoli al Tav spiegano che la Francia ha un sistema diverso dal nostro, che non specifica gli stanziamenti in bilancio. Altra asimmetria che l’Italia potrebbe contestare, perché viola l’articolo 16 e non dà al partner alcuna garanzia che gli accordi saranno rispettati.
Se n’è accorta anche la politica francese, tanto che già nel 2016 l’allora primo ministro Manuel Valls aveva promesso di modificare il sistema francese: “I finanziamenti devono essere garantiti per tutta la durata del progetto. Per questo motivo il progetto beneficerà del finanziamento di un fondo dedicato e sostenibile, il Fondo per lo sviluppo di una politica di trasporto intermodale nelle Alpi”. Mai realizzato.
8 marzo 2019