di Gianni Barbacetto
Nella Sala Gialla del Teatro alla Scala, lunedì 18 ci sarà la resa dei conti. Il consiglio d’amministrazione dirà “no grazie” ai sauditi e ai loro soldi. E contemporaneamente spegnerà le speranze di Alexander Pereira di essere riconfermato sovrintendente alla Scala. Pensava di avere in mano il jolly, Pereira: mettere nelle casse del teatro 15 milioni di euro, portati dall’Arabia Saudita, in cambio di un posto tra i “soci fondatori” nel consiglio d’amministrazione, accanto a Comune di Milano, Stato, Regione Lombardia, Camera di commercio di Milano, Cariplo, Eni, Mapei, Fondazione Banca del Monte di Lombardia.
I soldi – 3 milioni all’anno per 5 anni – sarebbero arrivati dalla compagnia petrolifera Saudi Aramco, interamente controllata dal governo saudita. Il principe Badr era arrivato tutto sorridente alla prima della Scala, il 7 dicembre scorso, e Pereira considerava la cosa fatta. Si era però dimenticato di coinvolgere il consiglio d’amministrazione e i soci, tra cui il governo italiano. Ha finito per indispettire tutti, dal sindaco di Milano Giuseppe Sala al presidente lombardo Attilio Fontana. Ha trascurato alcuni piccoli particolari, come il fatto che l’Arabia Saudita non brilla per rispetto dei diritti umani. Ha dimenticato anche il caso di Jamal Khashoggi, giornalista dissidente fatto sparire in una sede diplomatica saudita, ucciso e poi forse bruciato in un forno per kebab.
Dopo una lunga serie di pasticci e bisticci, dichiarazioni e interviste, Pereira è stato fermato. Sala ha detto che il sì ai sauditi potrebbe arrivare, lunedì, soltanto con un voto all’unanimità del consiglio d’amministrazione. Obiettivo irraggiungibile, visto che voteranno certamente no almeno Francesco Micheli (rappresentante dello Stato) e Philippe Daverio (della Regione).
La Francia ha già fatto un accordo con gli Emirati Arabi e ha portato il Louvre ad Abu Dhabi: un’operazione da 1 miliardo di euro, realizzata con incontri e accordi di vertice tra i due Stati. La Scala è il Louvre della lirica: può vendere un posto nel suo cda per un piatto di lenticchie, ricevuto oltretutto da un Paese che taglia a pezzi i dissidenti? Chi ha un posto in cda versa almeno 3 milioni, ma la Fondazione Cariplo ne dà 10. Ha senso svendere la Scala ai sauditi per 3 milioni? Certo che sarebbe stato bello vedere in cda Claudio De Scalzi, amministratore delegato di Eni malgrado i processi per corruzione internazionale e malgrado gli affari sbarazzini di sua moglie, seduto accanto al concorrente di Aramco. Non vedremo la scena.
E così nel 2020, alla scadenza del suo secondo mandato, Pereira sarà fuori. E già adesso è un’anitra zoppa. A sostituirlo potrebbe arrivare Carlo Fuortes: niente contro gli stranieri – la cultura non ha confini – ma sarebbe finalmente un italiano che torna a guidare un teatro che è la quintessenza della cultura italiana, dopo quindici anni di sovrintendenti arrivati da altri Paesi (prima Stéphane Lissner, poi Pereira).
Il cambio al vertice potrebbe portare all’uscita anche del direttore musicale: Riccardo Chailly termina il suo mandato nel 2022. Fuortes difficilmente lo confermerebbe sul podio, più verosimilmente porterebbe a Milano maestri come Antonio Pappano o Daniele Gatti. Chailly – per niente amato da quegli intenditori dei loggionisti – cerca allora alleati per difendere il podio. Il 30 maggio porterà il Coro e l’Orchestra della Scala a Brescia, dove dirigerà un Requiem per la canonizzazione di papa Paolo VI. Grande regista dell’operazione, naturalmente, Giovanni Bazoli, nel cda della Scala per conto di Fondazione Cariplo.
Il Fatto quotidiano, 14 marzo 2019