di Angelo Ruggeri
I recenti provvedimenti e progetti governativi in materia di Trattamento di fine rapporto e previdenza complementare (Tfr), mirano a canalizzare forzatamente questo salario differito dei lavoratori verso fondi pensione privati (di origine anglosassone), alcuni dei quali gestiti da Cgil-Cisl-Uil assieme alla confindustria. Questa pensione privata complementare permetterà, da un lato, altri tagli alla previdenza pubblica, facendo perdere ai lavoratori la liquidazione che, di fatto, servirà per coprire le loro perdite per i nuovi tagli alle pensioni e, soprattutto, dall’altro, permetterà ulteriore favore di quella privata a capitalizzazione.
Sia che si forzi tutto e subito il Tfr nei fondi pensioni o che si ottenga un loro impiego parziale, graduale e realmente “facoltativo”, dall’altro lato, permetterà di usare i soldi dei lavoratori per finanziare il sistema di intermediazione capitalistico e la Borsa azionaria e, soprattutto, di avviare il meccanismo destinato a portare quote crescenti di risparmio collettivo (Tfr, fondi pensione, fondi sanitari, ecc.) e individuale nelle mani di intermediari privati. Questo è il vero punto di politica economica che subordina e determina la politica pensionistica e sociale in generale.
Puntare quindi su un impiego parziale, graduale e “facoltativo” del Tfr (come pensano di fare taluni anche delle minoranze interne al sindacato), piuttosto che forzarlo tutto e subito nei fondi pensione, non significa quindi essere alternativi a questo: in ogni caso la linea resterebbe quella di usare i soldi dei lavoratori per finanziare i mercati finanziari. Con forzosità, perché la forzosità perseguita da tempo dal Fondo Monetario Internazionale, e dall’Ocse, e praticata da tutti i governi di destra e di sinistra, non consiste in altro che nel rendere esile e aleatoria la rete di salvataggio della previdenza sociale di base.
Tutto questo ha un senso preciso. Si parla d’insufficienza dell’accumulazione e di scarsità del capitale. Non perché è poco ma perché si assiste ad imponenti distruzioni di capitale nelle Borse valori, ai cosiddetti scandali finanziari, al dilagare della criminalità economica. In quelle sedi si liquidano e si ridistribuiscono ingenti masse di reddito (ad esempio, in soli due giorni, Colaninno ha bruciato in Borsa ventimila miliardi dei 100 concessigli per l’acquisto di Telecom). I fondi pensione forniscono già oggi il 60% dei capitali che circolano nella Borsa di Londra (poco meno a Tokio e New York), senza che i contribuenti ai fondi abbiano alcun titolo per controllarne l’uso. Nel migliore dei casi potrebbero formare associazioni volontarie per propugnare l’uso etico dei fondi. Dentro un “libero” mercato capitalistico (il “turbocapitalismo” di cui parla Luttwack in La dittatura del capitalismo), che non è stato mai uno scenario popolato e mosso da figure morali e virtuose: nemmeno quando i non marxisti credevano (e credono) che con l’assistenzialismo e lo stato sociale keinesiano fosse una cosa diversa da quello di una volta.
Lo “esige” la globalizzazione, che si dispiega anche con la finanziarizzazione che significa speculazione legata allo spostamento del danaro, senza alcun collegamento al credito per la produzione materiale e servizi annessi. Inoltre, con lo spostamento di capitali nei paradisi fiscali, significa un’immensa detassazione che crea il disavanzo dello Stato, che si fa pagare a tutti i cittadini con politiche di risanamento e pareggio di Bilancio: non c’è mai stata nessuna crisi fiscale ma solo una difficoltà dello stato nel finanziare le imprese.
Dietro ci sono delle autentiche teologie, come quella : “datemi del capitale e cambierò il mondo”. I tassi di formazione del profitto non sono mai stati così alti. Questo dimostra che l’insufficienza di capitale deriva da due punti di crisi, tradizionali della critica comunista al capitalismo:
1) il capitale subisce una distruzione continua, con una velocità che sembra aumentare con il tempo;
2) la società capitalistica realizza sempre di più il suo consenso distribuendo rendite.
Trattasi di un problema cruciale dell’accumulazione capitalistica e delle istituzioni che la governano. Per questo passare la gestione del risparmio collettivo, da “entità economiche di diritto pubblico” a “entità di diritto privato” (come un fondo comune d’investimento o una compagnia di assicurazione), è diventato un veicolo dell’azione politica di tutti quelli che vogliono andare o restare al governo. Un elemento di specificazione dei governi di destra e di “sinistra”, sul terreno delle politiche retributive e di ridistribuzione del reddito, volte a spostare ricchezza da salari e risparmio al capitale, con la politica dei redditi. Anche se rispetto a quella di “capitale” la nozione di “risparmio” è poco significativa, è così che la maggior parte delle popolazioni dei paesi industriali, in via forzosa o in via volontaria, è costretta a partecipare ai processi di accumulazione e a mettere ingenti risorse a disposizione del capitale finanziario.
<Non si è quindi “alternativi” difendendo le pensioni o lo stato sociale come si crede nel sindacato (anche nelle minoranze). Le pensioni come lo stato sociale si difendono attaccando il potere d’impresa che oltrepassa l’ambito meramente economico e si esercita sullo stato per il tramite di un “suo” governo. Se si è contro la “Nuova Economia” e per una “Nuova Economia Politica”.
Le pensioni c’entrano poco. E’ universalmente dimostrato che i costi di gestione dei fondi privati sono molto superiori e che la previdenza pubblica è condizione di un più elevato risparmio: in Italia si è ancora al 15 % contro il 3,7% del Regno Unito dove si è privatizzata la pensione. Nonostante ciò governo e vertici Cgil (con Cisl e Uil), vogliono mettere il risparmio nelle mani della speculazione finanziaria e di un capitalismo burocratico che, come ci dimostra il dilagare della criminalità economica, avrebbe bisogno di governi che anziché assumere e servire le regole promanate dal mercato, impongano il controllo sociale e politico dell’economia. Perché le regole non possono essere quelle di chi insiste nel voler regole etiche interne al sistema degli scambi mercantili, tra cui spiccano i fautori , dell’autoregolamentazione dei mercati. E nemmeno quelle di un mercato regolato che i “buoni” capitalisti vorrebbero. Il dilagare della criminalità economica, per cui il giudice spagnolo Garzòn ha proposto una tangentopoli mondiale, dimostra che le regole possono essere soltanto esterne alla logica degli scambi, in quanto espressione del contrasto permanente fra scambio capitalistico e società.
Questo governo D’Alema-Cossutta-Cofferatti, dopo aver legittimato i servizi finanziari come la più protetta delle industrie, rilancia la rendita finanziaria come ordinario – anzi privilegiato – accesso all’appropriazione di profitti. Altro che investimenti per l’occupazione.
Al posto di una “classe dirigente” si è insediata un’autentica “Chiesa finanziaria”, con tanto di Vaticano e Papa in Banca Italia: per questo ci si interroga su ogni parola del Governatore. Quella che anche Rifondazione insiste nel chiamare “sinistra di governo” per distinguerla, incomprensibilmente, da Berlusconi (che viene aborrito solo come persona e non come capitalista anche se mette le mani su Confindustria), serve questa Chiesa. Facendo dell’ideologia liberale una “religione di stato” al cui vertice, in modo quasi unanime, è stato posto Ciampi (con possibilità di Fazio capo del governo), uno dei massimi sacerdoti di un “liberalismo di stato”. Un ossimoro solo apparente, perché il capitalismo ha sempre usato e abusato dello stato, dai dazi fino al fascismo. Oggi poi nessuna esaltazione ditirambica del liberalismo, può nascondere che lo stato ha una posizione condizionante, persino delle forme d’investimento diretto del capitale privato. “Il muro del liberalismo” è definitivamente caduto 60 anni prima di quello di Berlino, con la crisi del 29. Ora è solo un simulacro ideologico dell’interventismo statale, a favore delle imprese, dei governi di destra e di “sinistra”.
(pubblicato il 24 marzo 2000)