di Giorgio Bongiovanni
Il consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, il 18 giugno 2012 inviò al Capo dello Stato una lettera di dimissioni (successivamente respinte) dopo le polemiche sulle telefonate tra il Quirinale e l’indagato al processo trattativa, Nicola Mancino. Una missiva in cui non solo ricordava la propria collaborazione ma metteva nero su bianco le seguenti parole: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che in quelle poche pagine non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere; che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi di cui ho detto anche ad altri – quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
Ad oltre vent’anni dalle stragi quegli indicibili accordi appaiono più che mai evidenti. Basta osservare e leggere tra le righe, osservando gli elementi che emergono dalle ultime indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio che stanno conducendo i pm a Caltanissetta, oppure le indagini di Firenze sui mandanti esterni e sulle stragi del 1993 (oggi è stato confermato in appello l’ergastolo al boss Francesco Tagliavia). O ancora seguire le indagini della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia, ascoltando anche le udienze del processo in corso, o la prossima richiesta d’Appello nel processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso nel ’95. Approfondire le motivazioni della sentenza Dell’Utri, condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, di cui si attende ora il giudizio in Cassazione. Quindi leggere le relazioni investigative e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che mettono in evidenza un nuovo “Status” per Cosa nostra, dove il latitante di Castelvetrano Matteo Messina Denaro viene indicato come un possibile Capo dell’organizzazione criminale.
A questi fatti aggiungiamo i comportamenti, anomali nella migliore delle ipotesi e nella peggiore criminali, del Capo dello Stato e di personaggi che occupano attualmente gli scranni del Parlamento alla Camera ed al Senato. Attendiamo poi di conoscere le rivelazioni dei figli di Paolo Borsellino, interrogati dalla Procura di Caltanissetta e i cui verbali d’interrogatorio sono stati secretati, e quelle della mamma, la vedova Agnese Borsellino scomparsa lo scorso maggio.
Manca, purtroppo, l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino, sparita in quel 19 luglio 1992, che sarebbe la prova delle prove ma in sua assenza resta evidente quel filo che mette in collegamento tutti questi elementi e che dimostrano quella verità che appare evidente ma che nessuno vuole vedere: gli attentati di Capaci e via D’Amelio sono stati senza ombra di dubbio stragi di Stato.
A commettere certi delitti, ad organizzarle e a metterle in atto sono stati gli uomini d’onore di Cosa Nostra per ordine della Cupola (dove spiccano le figure di Totò Riina e Bernardo Provenzano) ma la richiesta proveniva da altre sfere di potere.
Nuovi elementi hanno messo in evidenza come insieme con la mafia, non solo sul piano ideologico ma anche in quello esecutivo, vi fossero soggetti esterni a Cosa nostra.
Figure che hanno avuto un ruolo sia a Capaci che in via D’Amelio. Il pentito Gioacchino La Barbera, appartenente alla famiglia di Altofonte che partecipò alle fasi operative della strage, ha rivelato al sostituto della Dna Gianfranco Donadio che durante le riunioni preparatorie dell’attentato in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino vi era un uomo “sconosciuto” che “parlava a bassa voce”. Il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, grazie a cui è stato riaperto il processo su via d’Amelio, ha parlato di un “mister X” all’interno del garage in cui venne portata la Fiat 126, affinché venisse armata, prima dell’attentato. “La persona che era nel garage non era di Cosa nostra. Ne sono convinto. Tra le possibilità c’è che possa appartenere alle forze dell’ordine e la mia vita la gestiscono loro, sono io la prima persona ad avere interesse a vederla in carcere. Ma proprio non ricordo. Questo è un mistero fondamentale da risolvere e io sono qui per la verità” – ha detto ai giudici. Grazie alle rivelazioni di un altro collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, abbiamo scoperto che, prima di lui, come uomo a dover premere il bottone del telecomando era stato designato Pietro Rampulla, poi assente il 23 maggio 1992 in quanto “quel giorno aveva un impegno familiare”.
E Rampulla non era certo uno qualunque ma un “uomo d’onore” di Mistretta oltre che terrorista con dei contatti con i servizi segreti e ai movimenti eversivi di estrema destra.
Altre prove riguardano la presenza di tracce di esplosivo di tipo militare Semtex, in dotazione esclusivamente tra i servizi segreti italiani e stranieri, in entrambi gli attentati. E ciò significherebbe che soggetti esterni a Cosa nostra, uomini in carne ed ossa che non appartenevano a famiglie mafiose, non hanno solo osservato gli attentati ma partecipato attivamente. Non abbiamo prove certe che lo stesso esplosivo, oltre a quello recuperato dagli uomini di Brancaccio, sia stato utilizzato per le bombe del 1993 o che in queste stragi vi fosse anche la presenza di figure esterne a Cosa nostra ma restano elementi inquietanti che provano la forte connessione tra gli attentati di Firenze, Roma e Milano e il dialogo con apparati dello Stato così come è scritto nero su bianco nelle motivazioni della sentenza di primo grado “Tagliavia” in cui si precisa come la trattativa tra Stato e Cosa nostra “indubbiamente ci fu e venne quanto meno inizialmente impostata su un do ut des” e che “L’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”.
Ci sono poi le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza che i pm di Firenze, generalmente più moderati nell’approfondire le indagini sui mandanti esterni delle stragi, hanno definito credibili e non smentibili. Compresa quelle in cui parla dell’incontro avvenuto con Giuseppe Graviano al bar Doney. E’ questo il dialogo in cui il capomafia di Brancaccio parlò apertamente di Berlusconi e Dell’Utri come due persone affidabili (“disse che avevamo il Paese nelle mani grazie ad alcune persone serie che non erano come i ‘quattro crasti’ dei socialisti che prima avevano preso i voti poi ci avevano fatto la guerra. Poi mi fece il nome di Berlusconi e del nostro compaesano Dell’Utri”).
Ecco allora che lo scenario si fa ancora più drammatico.
Oggi, ottobre 2013, sappiamo tutto o quasi dell’assassinio di Stato che ha portato alla morte Falcone, Borsellino ed innocenti. Sappiamo come in questo Governo, così come nei Governi degli ultimi 24 anni, si annidano nel Parlamento, arrivando fino alle cariche più alte dello Stato, personaggi complici, omertosi e affaristi che nella migliore delle ipotesi hanno costruito la propria carriera sul sangue di Falcone e Borsellino mentre nella peggiore, che poi è quella che inquieta di più, sono loro gli assassini che hanno chiesto di eliminare i due giudici palermitani.
Noi siamo convinti che Cosa nostra non ha agito autonomamente e che non ha nemmeno ubbidito, ma stretto un patto di sangue con queste figure. Un patto sancito da un lato con la promessa di lunga vita per la mafia, dall’altro con la garanzia da parte della stessa Cosa nostra per permettere la perpetrazione del potere di questi criminali e assassini che governano il nostro Stato.
Ad opporsi a questo patto pochi uomini di Stato. Magistrati come Roberto Scarpinato, Antonino Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene, Antonio Ingroia (anche se oggi non riveste più la carica di magistrato), Gian Carlo Caselli, Ilda Boccassini, Sergio Lari, Domenico Gozzo e alcuni altri magistrati delle varie procure antimafia d’Italia. Sono loro, i degni eredi di Falcone e Borsellino, a meritare il rispetto e il nostro onore. Lo stesso non si può dire dei vertici della magistratura che negli ultimi anni si è macchiata di ipocrisia, corruzione, omertà e carrierismo. E’ bastato vedere quanto accaduto ad Antonio Ingroia ed i suoi colleghi, con organi come Csm, Anm, e correnti interne quale Magistratura democratica, pronte a colpire, minacciando provvedimenti disciplinari, inchieste e quant’altro, nel tentativo di isolare e scoraggiare le indagini.
E stesso discorso vale per membri della Corte Suprema di Cassazione, Procuratori Generali di Cassazione, Giudici della Corte Costituzionale che indegnamente ricoprono le alte cariche della magistratura. Soggetti che hanno impedito ai veri magistrati come Falcone e Borsellino di raggiungere la verità.
“Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone” dichiarò Paolo Borsellino nel 1992, dimostrando la propria grande umiltà. E oggi come ieri questa istituzione si è adoperata a più riprese per contrastare chi indaga sul biennio delle stragi e la trattativa.
Per questo chiedo anche io una riforma della giustizia ma non come quella che vuole l’ex premier, il pregiudicato Silvio Berlusconi. Una riforma che faccia pulizia partendo proprio dai vertici di questo organo che si è dimostrato inetto, omertoso e colluso anteponendo la carriera al credo sacrosanto “La legge è uguale per tutti”. E ai vertici si aggiungono quegli alti magistrati, pm e giudici che si sono macchiati di tradimento e corruzione economiche ed intellettuale, puntando solo a carrierismo e alla politica. Una riforma vera della magistratura si avrà solo quando sarà varata una legge sulla meritocrazia e professionalità dei pm e dei giudici. I risultati raggiunti sul campo farebbero scattare i meriti e soprattutto l’uso dell’esperienza e della capacità dei magistrati. Inoltre sarebbe importante abolire il limite di tempo concesso a un Pm nella lotta alla mafia e soprattutto non permettere alcuna interferenza nelle indagini da parte di alcun potere dello Stato, soprattutto quelle che fanno luce sui rapporti tra mafia e politica. E ancor di più sarebbe rivoluzionario abolire il segreto di Stato oltre a punire severamente i magistrati inetti e corrotti.
– 10 ottobre 2013