di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
Giustizia. Seppur tardiva, almeno è stata fatta. Il Csm ha archiviato all’unanimità l’azione disciplinare nei confronti del pm Nino Di Matteo: prosciolto da ogni accusa. Il procedimento (avviato il 19 marzo del 2013) riguardava una sua intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica il 22 giugno 2012. Secondo l’accusa il pm avrebbe rivelato l’esistenza delle telefonate intercettate tra l’ex ministro Nicola Mancino e il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, violando il dovere di riserbo a cui era tenuto. Una menzogna colossale. Di fatto il magistrato aveva risposto alla giornalista senza rivelare alcun segreto relativo alle telefonate tra Mancino e Napolitano di cui peraltro era stato Panorama.it a parlarne per primo. A detta del procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, Di Matteo sarebbe stato invece colpevole di avere ammesso l’esistenza di quelle telefonate “seppure non espressamente’’.
Dal canto suo il procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita (che ha difeso Di Matteo davanti al Csm), aveva immediatamente spiegato come l’azione disciplinare non aveva ragione di esistere. “La notizia (vera) della esistenza delle telefonate del Presidente – aveva sottolineato Ardita – era già presente sulla stampa da giorni. E insieme a questa era stata anche diffusa la notizia (falsa) che i contenuti di quelle conversazioni fossero rilevanti per le indagini. Nino Di Matteo dunque non ha affatto dato notizia delle telefonate. Ha solo ristabilito la verità, precisando che le telefonate del Capo dello Stato non erano minimamente rilevanti. Richiesto di sapere cosa avrebbero fatto delle registrazioni che erano nel processo, ha risposto: ‘Noi applicheremo la legge’. Quelle da distruggere verranno distrutte, quelle da trascrivere verranno trascritte”. “Da un esame sommario di casi analoghi, comportamenti come questo – aveva ulteriormente specificato il procuratore aggiunto di Messina – sono stati costantemente ritenuti irrilevanti giacché carenti del requisito dell’esser ‘diretti a ledere indebitamente i diritti altrui’. Ecco perché l’iniziativa di avvio del procedimento disciplinare basata su questi presupposti appare incomprensibile”.
Petizioni e richieste di archiviazione
Il 3 aprile dello scorso anno Antimafia Duemila ha avviato una petizione, rivolta allo stesso Csm, con la richiesta di archiviazione del procedimento disciplinare nei confronti del pm Di Matteo. Nel giro di alcune settimane sono state raccolte 23.000 firme successivamente inviate al Consiglio Superiore della Magistratura (tra i firmatari: Salvatore Borsellino, i giornalisti Sandro Ruotolo, Loris Mazzetti, Liana Milella, Dina Lauricella e Sandra Rizza, i fotografi Letizia Battaglia, Shobha e Franco Zecchin, lo scrittore spagnolo Joan Queralt Domenech, il Comitato Addiopizzo, l’ex ispettore della Dia Pippo Giordano, i familiari di vittime di mafia Antonella Borsellino e Mario Congiusta, il prof. Nicola Tranfaglia, don Paolo Cavallari, Lorenzo Frigerio di Libera e il cantautore Roy Paci). Di fatto lo scorso 19 dicembre lo stesso procuratore generale della Cassazione, Gianfranco Ciani, ha avanzato, alla sezione disciplinare del Csm, la richiesta di proscioglimento nei confronti di Nino Di Matteo (la medesima richiesta ha riguardato anche la posizione del procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, al quale era stato contestato di non avere segnalato le presunte violazioni commesse da Di Matteo).
L’ombra del Quirinale
Nell’istanza di archiviazione del procuratore generale della Cassazione (riportata in anteprima sul Fatto Quotidiano lo scorso 10 febbraio) è emersa palesemente l’ingerenza del Quirinale che, a tutti gli effetti, ha “suggerito” il provvedimento disciplinare verso il pm palermitano. “Al Procuratore generale presso la Cassazione – si legge nella richiesta di archiviazione di Gianfranco Ciani – perveniva, in data 11.7.2012, dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica, una missiva datata al 9.7.2012”. Il segretario generale è proprio Donato Marra, braccio destro di Napolitano, il quale aveva trasmesso un carteggio tra l’Avvocatura dello Stato e la Procura di Palermo a proposito dell’intervista rilasciata da Di Matteo. La stessa Avvocatura dello Stato, nella persona di Ignazio Caramazza, il 27 giugno 2012 aveva scritto al Procuratore Messineo chiedendo perché Di Matteo si fosse permesso di svelare a Repubblica che erano “state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, allo stato considerate irrilevanti, ma che la Procura si riserverebbe di utilizzare”. Il resto è cronaca, del tutto surreale. Per fare in modo che le telefonate tra Napolitano e Mancino venissero distrutte il prima possibile il Quirinale, il 16 luglio 2012, ha mosso contro la Procura di Palermo il conflitto di attribuzione per aver attentato alle “prerogative del Capo dello Stato”. Da quel momento il clima attorno a Nino Di Matteo e all’inchiesta sulla trattativa si è fatto ulteriormente pesante.
L’epilogo
A distanza di un anno dall’avvio dell’azione disciplinare si è arrivati quindi ad una (obbligatoria) archiviazione. Nel frattempo, però, il pm Di Matteo ha continuato ad essere bersaglio di lettere anonime, contenenti precise minacce di morte, inviate palesemente da apparati “deviati” (ma non troppo) dello Stato, fino a diventare il destinatario della condanna a morte del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. La decisione del Csm è giunta dunque dopo una forte presa di posizione popolare (manifestazioni antimafia in sostegno di Nino Di Matteo, petizioni, l’avvio della Scorta civica ecc.) che fin da subito ha condannato l’ipocrisia del Consiglio Superiore della Magistratura. Ipocrisia che si è ripetuta nella stessa istanza di archiviazione di Ciani il quale, con molta disinvoltura, ha specificato che la notizia delle telefonate Mancino-Napolitano non l’aveva svelata Di Matteo, ma Panorama, in un articolo “presente nella rassegna stampa del Csm del 21.6.2012”. Pertanto “con apprezzabile probabilità occorre assumere che la notizia… fosse oggetto di diffusione da parte dei mass media in tempo antecedente a quello dell’intervista incriminata”. Inoltre su Di Matteo è stato specificato che quest’ultimo ha tenuto “un atteggiamento di sostanziale cautela” e “non pare potersi dire consapevole autore di condotte intenzionalmente funzionali a ledere diritti dell’Istituzione Presidenza della Repubblica”, semmai “intenzionato a rappresentare la correttezza procedurale dell’indagine”. Quindi “la condotta del dr. Di Matteo non si è verosimilmente consumata nei termini illustrati nel capo d’incolpazione, tanto che nessun rimprovero disciplinare si ritiene di poter articolare nei suoi confronti”, né in quelli di Messineo. E’ evidente che mantenere aperto un provvedimento disciplinare – basato sul nulla – ha inciso notevolmente sullo stato psico-fisico di un magistrato già sovraesposto. Che poi tutto questo rientri in una precisa metodologia di “sfiancamento”, architettata ad arte da una “casta” che si rende complice di un sistema criminale è tutto da dimostrare. Ma i presupposti ci sono tutti.
L’attenzione adesso si sposta sulla Cassazione dove il prossimo 18 aprile la VI sezione penale discuterà l’istanza di rimessione avanzata dai legali degli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno per far spostare da Palermo – così da azzerarlo – il processo sulla trattativa.
2 aprile 2014
foto: Di Matteo diCastolo©Giannini