Subranni e Cinà: dichiarazioni spontanee contro tutte le accuse
di Lorenzo Baldo e Miriam Cuccu
“A Palermo è diventato sindaco, ha fatto gli affari con le case. Dietro di lui c’era “L”, Licio Gelli”. Totò Riina, che dal carcere di Parma segue il processo trattativa Stato-mafia, non usa lasciarsi andare a commenti. Ma quel giorno – è il 30 marzo di quest’anno – davanti all’agente di polizia penitenziaria Cosimo Chiloiro oggi teste davanti alla Corte d’Assise di Palermo inizia a parlare. Di Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, di “Binnu” Provenzano, che con don Vito “andava d’accordo”, e dello “zio Saro”, che possibilmente sarebbe il noto pregiudicato Rosario Pio Cattafi da molti considerato “trait d’union” fra la mafia barcellonese e le altre associazioni criminali, di cui Riina parla come “un trafficante d’armi straniero”.
“Ero nella saletta delle conferenze, in attività di vigilanza. – ha esordito Chiloiro – Riina cominciò a parlare durante la pausa dell’udienza. Eravamo solo io e il detenuto. In quel momento disse che voleva proseguire l’udienza per vedere se parlavano dello ‘zio Saro’, trafficante di armi”. Quel giorno, in aula, c’erano il generale Eugenio Morini e il colonnello Giovanni Paone. Si parlava della nomina di Francesco Di Maggio a vice-capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, della gestione del confidente Luigi Ilardo – ucciso prima di diventare collaboratore di giustizia – e di Rosario Pio Cattafi. “Di Maggio – aveva riferito Morini, che in due occasioni lo accompagnò per interrogare l’avvocato di Barcellona Pozzo di Gotto – me lo descrisse come il referente del boss Santapaola per il milanese ed il Nord Italia”. Riina, ha proseguito Chiloiro, “mi disse ‘della morte del Di Maggio possono chiedere al suo amico Salvatore, lui sa bene”. A chi si riferiva? Il boss di Corleone, ha replicato il teste, non l’ha chiarito.
Poco dopo il colloquio il teste ha redatto una relazione di servizio, giunta nelle mani dei pm di Palermo. “Ciancimino era di Corleone, suo padre stava al paese, e lui invece è andato a Palermo e non è più tornato al paese. – sono le parole di Riina contenute nel documento – A Palermo è diventato sindaco, ha fatto gli affari con le case. Dietro di lui c’era ‘L’, Licio Gelli”. “Riina ha fatto il nome di Licio Gelli nel momento in cui si accorse dalla mia espressione che non capivo a chi si riferiva con ‘L’” ha spiegato il teste, nel proseguire la relazione con le esternazioni del boss: “Ciancimino non mi è mai piaciuto, – si legge ancora – lui andava d’accordo con Provenzano, andavano insieme al “Baby Luna”. Una volta l’ho visto su una rivista con gli sbirri, quando ero fuori, tramite il giornale mandavano dichiarazioni dove avevo la casa in affitto. Io non riuscivo a fare gli allacci della luce”. “C’erano frasi – ha chiarito Chiloiro – per le quali non riuscivo a dare un nesso logico”.
In quell’occasione Riina raccontò al poliziotto di aver appreso da Leoluca Bagarella che Provenzano era uno “sbirro”: “Sono stato in carcere cinque o sei anni a Bari, quando non esisteva il 41 (bis, ndr). Quando sono uscito mio cognato (Bagarella, ndr) mi ha detto che Binnu era uno sbirro, allora gli ho detto vai a Marineo (in provincia di Palermo, ndr), dove ci sono i boschi e lui ha una proprietà. Lui non ha detto nulla perchè altrimenti sapeva che gli facevo la pelle, alle spalle avrà detto sicuramente ‘perché non ci vai tu?’. Io pensavo fosse una brava persona, uno d’onore”. Mentre il boss parlava, ha aggiunto Chiloiro, “entrò nella saletta un collega”, che ascoltò parte del discorso di Riina. I due poliziotti, però, non ne parlarono mai. Quel che è certo, però, è che il teste considerò l’episodio “qualcosa di anomalo”. Forse l’intento di Riina era quello di far giungere le sue parole all’esterno? Il teste non l’ha escluso: “Un detenuto con un’esperienza carceraria notevole sa che ciò che riferisce verrà poi riportato”. Non è la prima volta, ad ogni modo, che Totò Riina manifesta il suo interesse per il trattativa Stato-mafia. Il “capo dei capi” non fa mistero delle sue previsioni sull’esito del processo: “Ha detto che sarebbe stato condannato in quanto Salvatore Riina” ha concluso Chiloiro.
Da Subranni a Cinà: a colpi di dichiarazioni spontanee
Davanti alla Corte d’Assise è quindi comparso l’ex generale dei Carabinieri Antonio Subranni, accusato, insieme agli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, di aver preso parte alla trattativa tra Stato e mafia. Tra i punti toccati dall’ex ufficiale, la difesa del proprio operato durante l’avvio delle indagini sull’omicidio di Peppino Impastato, quando era capo del reparto operativo di Palermo. Proprio il pentito Francesco Di Carlo riferì che Subranni si sarebbe adoperato in favore del boss Gaetano Badalamenti – poi condannato come mandante per l’omicidio Impastato – al fine di depistare le indagini. Di Carlo dichiarò inoltre di aver più volte visto il generale negli uffici dei cugini Nino e Ignazio Salvo – il rapporto tra i due è stato poi riferito da Nicolò Gebbia, generale dei carabinieri in pensione – e una volta anche con Salvo Lima. Tutte circostanze respinte da Subranni, che ha mantenuto lo stesso atteggiamento nei confronti delle dichiarazioni del pentito Angelo Siino. Per la vicenda Impastato, nei confronti del generale era stata aperta un’indagine per favoreggiamento, per la quale è stata poi chiesta l’archiviazione.
Parte delle dichiarazioni spontanee hanno fatto poi riferimento alle parole della moglie di Paolo Borsellino, Agnese – deceduta nel 2013 – la quale aveva riferito di aver sentito dal marito che il generale Subranni era “punciuto” (affiliato a Cosa nostra). Circostanza che la Borsellino riferì a Diego Cavaliero, amico e collega del giudice ucciso e tra i testi del processo trattativa. All’epoca delle dichiarazioni, pronunciate per la prima volta solo poco prima del decesso, era stata la stessa Borsellino a spiegare perchè aveva aspettato così a lungo: “Non c’erano i presupposti perché io dicessi certe cose. Le ho dette a poco a poco, cercando di capire il momento adatto. Io ritengo che i mafiosi siano stati soldati, che siano stati mandati per eseguire la strage, ma dietro questa strage ritengo che ci sia ben altro”.
Fulcro delle dichiarazioni spontanee del coimputato Antonino Cinà sono state quindi le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, teste-imputato del trattativa che a processo ha parlato dei rapporti tra il padre, Totò Riina e lo stesso Cinà, secondo i pm “postino” del “papello” del capo dei capi. Di Cinà parlarono i pentiti Rosario Naimo – “mi disse che era stato lui ad avere i contatti con i politici ai quali avanzare delle richieste tra cui l’eliminazione del 41bis” – e Pino Lipari, che riferì del ruolo del medico nella consegna del “papello”. L’imputato, in videoconferenza, ha respinto tutte le accuse. La prossima udienza, fissata per il 12 ottobre, sarà dedicata all’esame del collaboratore Eugenio Sturiale.
22 Settembre 2017