Jamil El Sadi
L’ex procuratore generale di Palermo, oggi senatore M5S, intervistato da “Memoria e Futuro”
“Ciò che mi ha colpito di questa sentenza è la sproporzione. La sentenza impugnata della Corte d’Assise di Appello di Palermo era di tremila pagine. Una disamina accuratissima di tanti fatti. Questa sentenza invece è di 90 pagine, ma in realtà se togliamo la parte in cui si racconta ciò che è successo nei precedenti gradi di giudizio e le esposizioni del motivo di ricorso ci riduciamo a 30 pagine. Cioè è una motivazione tweet e scarna di cui sinceramente non sono riuscito a comprendere il discorso argomentativo della Cassazione”. Sono queste le parole con cui l’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, oggi senatore 5Stelle, ha commentato le motivazioni della recente sentenza di Cassazione del processo Trattativa Stato-mafia durante un’intervista rilasciata a Giorgio Mannino, dell’Ass. “Memoria e Futuro”. Una sentenza che, come abbiamo già scritto, ha di fatto stabilito che per la trattativa intercorsa nel biennio stragista ’92-’93 tra i vertici del Ros e Cosa nostra non ci sono colpevoli.
“In sostanza – ha spiegato Scarpinato – viene scritto che il reato di minaccia a corpo politico dello Stato è un reato di pericolo che si consuma nel momento stesso in cui il minacciato viene a conoscenza della minaccia. E non occorre che poi si adegui alla minaccia, cioè che faccia qualcosa di concreto. È sufficiente che venga a conoscenza della minaccia. E si conclude che Bagarella non può essere condannato per il reato perché le stragi che lui e gli altri mafiosi hanno consumato non sono state recepite da nessun ministro, da nessun presidente del Consiglio, da nessuna componente parlamentare come stragi che erano finalizzate a ottenere qualcosa dallo Stato”. Eppure, come ha sottolineato l’ex procuratore, “lui e gli altri volevano far capire allo Stato che con quelle stragi volevano ottenere qualcosa in cambio; ma nessuno l’ha capito”. Da qui la decisione di ritenere il capomafia Leoluca Bagarella, responsabile di tentata minaccia a corpo politico dello Stato. Una scelta non molto convincente che ha lasciato incredulo anche il senatore. “Sinceramente – ha detto Scarpinato – questa parte della motivazione della sentenza non l’ho capita, tenuto conto che nella motivazione della sentenza impugnata ci sono tantissimi episodi di presidenti del consiglio e ministri che avevano capito che quelle stragi erano stragi di mafia che volevano ottenere qualcosa”.
Per l’ex magistrato, si è di fronte a una sentenza che “a causa della sua laconicità lascia aperti tanti interrogativi”. “La Procura di Palermo fu ingannata – ha detto -. E così fu reso possibile di svuotare l’abitazione di Riina senza che la Procura la perquisisse. Scomparvero documenti importantissimi che avrebbero potuto portare ai mandanti esterni”. “Perché questo? – si è domandato – Perché Mario Mori non arrestò Bernardo Provenzano pur avendo il numero di targa del suo autista per tanto tempo. Perché pur avendo saputo dal maresciallo Tempesta che Paolo Bellini (ex estremista nero condannato nel processo a Bologna per la strage del 2 agosto 1980 alla Stazione Centrale, ndr) era entrato in contatto con Antonino Gioè (boss di Altofonte deceduto in circostanze misteriose nel carcere di Rebibbia) la notte tra il 28 e il 29 luglio del 1993, ndr) Mori gli disse di non fare una relazione di servizio e distrusse un biglietto che Bellini aveva ricevuto da Gioè”. Domande che, come ha precisato Scarpinato, “restano sospese”.
Inoltre, a contrapporsi alle deboli motivazioni della Cassazione, l’ex pg di Palermo ha richiamato all’attenzione le Sezioni Unite della Cassazione. “Quando è accertata una condotta nella sua materialità, se quella condotta è coperta da un giudicato per il reato di favoreggiamento può essere valutata per la consumazione di un altro reato”. “I fatti nella loro materialità sono stati accertati e sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato, non perché il fatto non esiste. Ecco perché io giuridicamente questa parte della sentenza non la capisco – ha detto Scarpinato –. Forse una motivazione più estesa e argomentata avrebbe consentito di capire meglio il percorso che ha seguito la Cassazione. Naturalmente rispetto l’esito delle sentenze però da giurista dopo sette mesi invece di leggere una motivazione di trenta righe mi sarei aspettato una sentenza che mi facesse comprendere di più”.
L’agenda rossa: la scatola nera della strage di via d’Amelio
Nel corso dell’intervista, oltre alle motivazioni della sentenza del processo Trattativa Stato-mafia, Scarpinato ha commentato anche le recenti notizie di cronaca che hanno riguardato l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Da un lato la perquisizione dei carabinieri del Ros, incaricati dalla Procura di Caltanissetta, a casa dei familiari dell’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Dall’altra, invece, l’ultima rilevazione “shock” sul mistero dell’agenda rossa di Borsellino che, secondo Salvatore Pilato, all’epoca della strage magistrato di turno della Procura di Palermo e ora Presidente della sezione di controllo per la Regione siciliana della Corte dei Conti, “era in procura”.
“L’agenda rossa di Paolo Borsellino è sempre stata l’ossessione di tutti coloro che vogliono raccontare che la strage di via d’Amelio è stata eseguita soltanto dai mafiosi – ha detto Scarpinato –. Hanno cercato di ridimensionarla in tutti i modi. Non sanno come farla uscire di scena”. Roberto Scarpinato nel corso della sua lunga carriera da magistrato ha studiato a fondo questa vicenda. Per lui “l’agenda rossa è stata prelevata pochi minuti dopo l’esplosione da persone che sapevano che ci sarebbe stata quella strage. I mafiosi non potevano recuperarla perché potevano essere visti e identificati da persone che si sarebbero affacciate dai balconi. Occorrevano dunque insospettabili che avessero le credenziali per stare sulla scena e prelevare la borsa del magistrato. Ad esempio, carabinieri o agenti di polizia”. “È un fatto assolutamente certo che il capitano Arcangioli viene fotografato con in mano la borsa di Borsellino – ha sottolineato –. Si allontana dal luogo della strage e poi ritorna facendo una cosa incredibile. Ripone la borsa dentro un’auto in fiamme che si sarebbe bruciata se non fosse intervenuto un vigile del fuoco che ha estinto le fiamme”.
Per l’ex magistrato una cosa è certa: “L’agenda rossa è in mano di qualcuno e non sono quelle di Arnaldo La Barbera. Lui era un esecutore di altri. Questo reperto ha un potere ricattatorio enorme. Ecco perché diventa e resta l’ossessione della strage di via d’Amelio. Motivo per cui non credo che riusciremo mai a sapere esattamente come sono andate le cose”.
La Commissione Antimafia e l’assenza di un’ottica unitaria delle stragi
Altro argomento affrontato a più riprese durante la diretta Facebook è il lavoro che sta portando avanti la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Chiara Colosimo. “In commissione Antimafia la maggioranza ha sino ad ora scelto di concentrare il lavoro sulla sola Strage di via d’Amelio e non su tutto quanto accaduto nel biennio delle stragi 1992-93 – ha detto Scarpinato –. Noi abbiamo fatto presente che è un torto verso le vittime delle altre stragi e un grave errore di metodo, perché per scoprire le verità nascoste dietro la Strage di via D’Amelio e per comprendere le finalità dei depistaggi, dobbiamo capire qual è il filo conduttore che lega tutte le stragi, ricostruire il disegno unitario che le tiene unite l’una con l’altra“. Ad esempio, ha sottolineato il senatore 5Stelle, Paolo Borsellino “aveva capito che la strage di Capaci non era solo opera della mafia, aveva compreso di essere spiato dai servizi e per questo manifestò i suoi timori alla moglie, e ciò grazie a fonti che nessun altro aveva, alcune delle quali rimaste segrete, perché alcuni collaboratori di giustizia si fidavano solo di lui. Sono stati proprio Falcone e Borsellino a comprendere per primi con il maxiprocesso che spezzettare le indagini sui singoli fatti criminosi era un metodo fallimentare e che occorreva invece esaminarli nel loro insieme per ricostruire la chiave di lettura unitaria che portava alla centrale di comando della Commissione”. Ed è “paradossale” che “nelle indagini concernenti la loro uccisione nel 1992 e le stragi del 1993, si sia sino ad oggi disapplicato tale metodo di indagine, procedendo in modo parcellizzato per ogni singola strage e perdendo così di vista il disegno unitario che tutte le unisce e che spiega la partecipazione di soggetti esterni, uno dei quali indicato da Gaspare Spatuzza, e la continuità dei depistaggi iniziati già subito dopo la strage di Capaci e proseguiti ininterrottamente nel tempo anche negli anni successivi alle stragi del 1993, come, ad esempio, il depistaggio Scarantino iniziato nel giugno 1994 e portato avanti per anni”. Errore ancora più grave, ha aggiunto l’ex magistrato, “se la commissione Antimafia dovesse persistere a limitare la sua indagine solo ad una strage, venendo meno al dovere della ricostruzione storica complessiva del disegno stragista. Falcone e Borsellino appartengono all’Italia, sono un patrimonio dell’intero paese, accertare la piena verità deve essere interesse di tutti“. “Non si rende giustizia alle vittime e non si fa un buon servizio al nostro Paese – ha aggiunto – se ci si concentra solo su una strage e si punta a individuare solamente i colpevoli appartenenti al mondo mafioso o a personaggi della politica della prima repubblica ormai fuori scena, tagliando così i fili che da quel passato possono portare all’attualità politica. Le stragi non sono una storia del passato, ma restano tra noi perché ancora oggi tanti hanno timore e interesse a occultare verità scomode e potenzialmente destabilizzanti. Nella relazione che ho consegnato alla commissione ho descritto in dettaglio tutti i buchi neri delle indagini sulle stragi, indicando nuovi documenti, nuovi testi e formulando richieste specifiche e urgenti“.