di F. Q.
“Che Cesare Previti fosse il responsabile della giustizia nel partito, pur non essendo ministro, non ci scandalizzava. Sono normali queste cose” ha risposto l’ex ministro dell’Interno. L’avvocato, ministro della Difesa con Berlusconi, è stato condannato nel 2006 a sei anni per corruzione i atti giudiziari nel processo Imi Sir e prescritto in quello Sme
Un personaggio di cui non si sentiva parlare da tempo compare nel processo sulla trattativa Stato mafia. Cesare Previti, avvocato, deputato di Forza Italia e ministro della Difesa del primo governo Berlusconi, viene citato da un altro ex ministro berlusconiano, Roberto Maroni. “Nell’ambito della compagine governativa era notoria l’influenza che il senatore Previti (all’epoca ministro della Difesa) aveva sulle iniziative in tema di giustizia – ha detto il leghista – Che Cesare Previti (condannato poi a sei anni per corruzione i atti giudiziari nel processo Imi Sir e prescritto in quello Sme, ndr) fosse il responsabile della giustizia nel partito, pur non essendo ministro, non ci scandalizzava. Sono normali queste cose“. A Previti, che ha ottenuto la riabilitazione, era stato tolto il vitalizio da parlamentare.
“Quando ero ministro dell’Interno – ha detto il presidente della Lombardia rispondendo alle domande dei pm – avevo avuto modo di leggere una serie di fascicoli del Sisde che riguardavano di fatto un’attività di dossieraggio nei confronti di esponenti dei vari partiti politici tra i quali uno sul mio predecessore al Viminale: Nicola Mancino. Ritenni di sollevare pubblicamente il caso anche con un intervento specifico in Senato. Anche questa vicenda – ha proseguito – mi indusse a rimuovere Domenico Salazar che era direttore del Sisde. Diversi nomi mi vennero poi segnalati per sostituirlo sia dalla presidenza del Consiglio che per il tramite del capo della polizia Vincenzo Parisi. Tra questi nomi c’era anche Mario Mori. Scelsi però autonomamente di proporre il generale dei carabinieri Gaetano Marino. Non mi era stato segnalato da palazzo Chigi e ciò ebbe un’influenza decisiva nella mia scelta di sparigliare le carte rispetto alle prassi e alle dinamiche sostanziali delle precedenti nomine e gestioni. Mi imposi dicendo che altrimenti mi sarei dimesso e il governo cadeva”. “Parisi non voleva Marino – ha spiegato – perché diceva che un militare non poteva stare a capo di un servizio civile, eppure mi aveva proposto Mori”.
Nella sua testimonianza l’esponente leghista ha ricordato anche il caso sul decreto Biondi: “Mi opposi pubblicamente, in un’intervista al Tg3 (del 16 luglio 1994), al decreto legge approvato dal Consiglio dei ministri il 14 luglio del 1994 (il cosiddetto decreto Biondi che vietava la custodia cautelare in carcere per i reati come la corruzione e la concussione ndr). Notai subito delle differenze rispetto a quello che mi era stato mostrato nei giorni precedenti soprattutto sull’applicabilità di misure cautelari nell’ambito di procedimenti per reati come la corruzione e concussione”. L’intervista è stata proiettata nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo.
Maroni ha ricordato anche di aver fatto esplicito riferimento alle conseguenze negative che il decreto avrebbe avuto nella lotta alla mafia. “Mi ero consultato – ha aggiunto – sia con il procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, che mi disse che sarebbe stata più difficile la lotta alla mafia con quel decreto e alcune indagini sarebbero state impossibili, che con il capo della polizia Vincenzo Parisi che concordavano con me. Chiesi al gruppo della Lega in parlamento di non emendare il decreto e di non votare la fiducia. Comunque quel decreto venne dopo pochi giorni ritirato. Il governo votò che non c’erano i requisiti di urgenza e decadde. Io ero pronto a dare le dimissioni da ministro. Su quanto dissi nell’intervista, nessuno mi contestò che avevo detto cose false”. Secondo quanto ricorda Maroni, il decreto era stato predisposto dagli uffici del ministero di Giustizia guidato da Alfredo Biondi.
“Caselli, in particolare, mi disse che c’era un articolo del decreto che prevedeva di informare gli indagati delle indagini in corso e questo avrebbe pregiudicato molto il lavoro della Procura”, ha proseguito Maroni. Il pm Nino Di Matteo ha letto all’ex ministro dell’Interno l’articolo 9 di quel decreto che fu poi ritirato. Nell’articolo 9 si legge anche che “Se sussistono specifiche esigenze attinenti all’attività di indagine, il pubblico ministero può disporre con decreto motivato il segreto sulle iscrizioni per un periodo non superiore complessivamente a tre mesi”. Maroni, rispondendo alle domande del pm, ha specificato che non ricordava la presenza di quell’articolo nella prima stesura del decreto.
15 dicembre 2016