di Gianni Barbacetto
Com’è triste il declino politico-giudiziario della classe dirigente che vent’anni fa prometteva di cambiare l’Italia. Silvio Berlusconi e gli “uomini nuovi” del suo centrodestra tramontano mestamente, bocciati nelle urne dagli elettori che hanno tolto loro milioni di voti; e massacrati nei tribunali da sentenze che accompagnano verso il carcere proconsoli, colonnelli e capitani. In un giorno solo, il 22 dicembre 2016, sono arrivate tre condanne: a Roberto Formigoni (Milano), Alfonso Papa (Napoli) e Giuseppe Scopelliti (Reggio Calabria); e una requisitoria durissima: contro Denis Verdini (Firenze). D’accordo: il crepuscolo è politico, il berlusconismo si sta autodecomponendo. Risentiamo le vocette di quelli che ripetevano fino allo sfinimento che “non si può sconfiggere Berlusconi per via giudiziaria”, come se perseguire i reati (e raccontarli) fosse facoltativo. Eppure oggi fa impressione mettere in fila le inchieste, gli arresti, le condanne che hanno decimato un’intera classe politica la quale ora fa fatica a spiegare tutto con il complotto delle toghe rosse. L’elenco dei reati, la mole delle prove, i molteplici gradi del giudizio non sono frigoriferi abbandonati nelle strade di Roma e suonano una marcetta felliniana che accompagna la malinconica uscita di scena di Berlusconi e dei suoi.
Così, in un fine anno che rende inclini ai resoconti, ai bilanci, alle rassegne, ai rendiconti, si può provare a mettere in fila i nomi, le inchieste, le sentenze. Nel giovedì nero del berlusconismo, il 22 dicembre, Roberto Formigoni è stato condannato a 6 anni, in primo grado, per corruzione. È un berlusconiano anomalo e indipendente, il Celeste, ma è stato per due decenni il perno del sistema di Berlusconi in Lombardia. Gli hanno confiscato anche beni per 6,6 milioni di euro, per fargli finalmente realizzare quei “conguagli” di fine vacanza che si dimenticava puntualmente di fare, dopo i viaggi ai Caraibi o in Sardegna, pagati dal lobbista delle cliniche private Maugeri.
A dar retta alla sentenza, ha intascato una forma moderna e ricreativa della vecchia, noiosa tangente: 8 milioni di “altre utilità” (voli, hotel, yacht, ristoranti, regali, megasconto su una villa in Sardegna…) che l’ex presidente della regione più ricca d’Italia accettava in cambio di finanziamenti regionali per 200 milioni concessi alle strutture sanitarie della Fondazione Maugeri. Insieme al Celeste, a Milano e in Lombardia è crollato tutto il sistema berlusconiano: nel 2011 sono arrestati gli assessori Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni, sono indagati i loro compagni di giunta Angelo Giammario e Gianluca Rinaldin. Per aver comprato cash i voti della ’ndrangheta è arrestato anche l’assessore Domenico Zambetti. Esce di scena anche Nicole Minetti, organizzatrice delle cene del bunga-bunga di Arcore, condannata per favoreggiamento alla prostituzione.
Berlusconi sale ancora al Quirinale, per partecipare alle consultazioni del Capo dello Stato sul nuovo governo. Ma è stato espulso dal Senato, non si può ricandidare alle elezioni, e accanto alla condanna definitiva (4 anni per frode fiscale, falso in bilancio, appropriazione indebita nel processo Mediaset) ha pendenti altre indagini, tra cui quella insidiosa per corruzione in atti giudiziari in cui deve rispondere all’accusa di aver pagato decine di ragazze e testimoni del processo Ruby per addomesticare i loro racconti davanti ai giudici.
Sono finiti in carcere i suoi collaboratori della prima ora, il suo braccio destro e quello sinistro, Cesare Previti e Marcello Dell’Utri. Cesare è stato condannato a 6 anni per corruzione in atti giudiziari per Imi-Sir, Marcello a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in quanto mediatore tra Cosa nostra e Berlusconi (una motivazione da brivido che in un Paese normale sarebbe stata la fine, non giudiziaria ma politica, anche di Berlusconi medesimo).
È caduto il suo proconsole in Veneto, quel Giancarlo Galan passato nel 1994 da Publitalia a Forza Italia, poi presidente della Regione e due volte ministro, incappato nello scandalo del Mose. Indagato, arrestato nel luglio 2014, in cella per 78 giorni, ha patteggiato una pena a 2 anni e 10 mesi e restituito 2,6 milioni di euro. È andata perfino peggio al proconsole della Campania: Nicola Cosentino nel 2014 viene arrestato per aver agevolato il clan camorristico dei Casalesi e nel 2016 è condannato a 4 anni per corruzione.
Prima era toccato a Claudio Scajola, colonnello ligure di Forza Italia, coordinatore del partito e più volte ministro. Nel 2010 si dimette, per la casa con vista sul Colosseo che gli era stata pagata “a sua insaputa” dall’imprenditore della “Cricca” Diego Anemone, indagato per corruzione a causa degli appalti ricevuti dalla Protezione civile. Come se non bastasse, nel maggio 2014 viene arrestato dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria con l’accusa di aver agevolato la latitanza dell’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena. Sì, perché in questo lento tramonto politico-giudiziario del berlusconismo, gli arresti sono come le ciliege, uno tira l’altro. Scajola, già ministro dell’Interno, è accusato di aver aiutato un latitante ricercato per ’ndrangheta: Matacena, infatti, è stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ossia “per il patto intercorso tra Matacena e la ’ndrina Rosmini di Reggio Calabria”, scrivono i giudici, “un patto che era in grado di accrescere il potere della cosca reggina”.
Al di là dello Stretto, in Sicilia, sono tramontati i due presidenti di Regione che, benché non berlusconiani di stretta osservanza, hanno garantito per un decennio il sistema berlusconiano nell’isola: il cuffariano Totò Cuffaro e il lombardiano Raffaele Lombardo. Il primo è condannato a 7 anni: è provato, scrivono i giudici, “l’accordo politico-mafioso tra il capo-mandamento Giuseppe Guttadauro e l’uomo politico Salvatore Cuffaro, e la consapevolezza di quest’ultimo di agevolare l’associazione mafiosa, inserendo nella lista elettorale persone gradite ai boss e rivelando, in più occasioni, a personaggi mafiosi l’esistenza di indagini in corso nei loro confronti”. Lombardo è invece condannato nel 2014, in primo grado con rito abbreviato, a 6 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. In Sardegna, è toccato a Ugo Cappellacci, ex presidente della Regione, di essere condannato in primo grado a 2 anni e 6 mesi per bancarotta.
Nel giovedì nero del berlusconismo, il 22 dicembre, oltre a Formigoni sono stati condannati, a Napoli Alfonso Papa, deputato di Forza Italia, 4 anni e 6 mesi per i reati di concussione per induzione e istigazione alla corruzione nella vicenda che coinvolge imprenditori ritenuti vicini al clan camorristico dei Belforte; e a Reggio Calabria Giuseppe Scopelliti, Pdl calabrese provenieniente da An, a 5 anni per abuso d’ufficio e falso. A Firenze, nello stesso giorno, il pm ha pronunciato un’impietosa requisitoria contro Denis Verdini, essenza politica del berlusconismo, ex coordinatore di Forza Italia. Imputato in cinque processi, già condannato per corruzione (e poi prescritto) per la vicenda degli appalti della “Cricca” alla Scuola dei Marescialli di Firenze, Verdini è – dice il magistrato nella sua requisitoria – “un truffatore” che con la sua attività al Credito cooperativo fiorentino, che ha guidato per vent’anni, ha “rovinato” la banca. La colonna sonora felliniana smiagola sui titoli di coda.
Il Fatto quotidiano, 30 dicembre 2016