Foto: Bettino Craxi e Giuliano Amato
Materiale fornito da Angelo Ruggeri
Centro d’iniziativa politica e culturale “IL LAVORATORE”
Un pernicioso arretramento
dell’ideologia giuridica italiana
DALLA DEMOCRAZIA “SOCIALE”
ALLA DEMOCRAZIA “COSTITUZIONALE”
La scelta del PDS di non agire più come partito “antisistema” è maturata – ben prima
della caduta del “soviettismo” con cui si è mistificata tale scelta –
con l’accettazione della strategia delle “riforme istituzionali” aperta
da forze extraparlamentari ed eversive come la P2 e da quelle parlamentari
quali la destra democristiana e il Psi di Craxi e Amato,
Così si è aperta la strada alla destra per delegittimare il nostro
ordinamento democratico-sociale che l’aveva invano predicata per 40 anni,
e per l’introduzione del sistema elettorale ”uninominale”,
promossa negli anni ‘90 da gruppi della borghesia di destra e di sinistra
favorevoli alla “governabilità” portata in auge da Craxi e Spadolini.
La c.d. “democrazia costituzionale” oggi esprime la posizione culturale dei giuristi
“democratici” che, tornando indietro di quasi un secolo, sganciano i diritti civili
dai rapporti sociali, cioè “reali”, privandoli così della forza che la Costituzione,
con una permanente dialettica “politica, economica e sociale”
conferisce anche ai diritti individuali,
classificandoli così, anch’essi, come “fondamentali”.
Ciò anche perché si avvalla l’autoritarismo proprio della forma di governo verticistica
e pseudodemocratica propria dei modelli politico-istituzionali bipolari,
che si differenziano dal totalitarismo sol perché oltre al “partito unico” di governo,
ammette un solo e unico altro polo o partito (di opposizione “costruttiva”, cioè subalterna),
ma del tutto emarginato per l’intera legislatura dal potere di indirizzo politico e parlamentare
e, quindi, del tutto ininfluente.
Com’è noto, lo snaturamento della democrazia italiana ha origini nell’abbandono progressivo di una concezione “classista” dei rapporti tra società civile e società politica. Un abbandono reso evidente dalla sopravvenuta “cupidigia” di entrare a far parte del sistema di potere capitalistico dei gruppi dirigenti del PDS (ora Ds) e della Cgil, che hanno occultato tale decisione di non comportarsi più come partito “antisistema” dietro la crisi del “soviettismo” quando, viceversa, la scelta era maturata sotto la spinta – ritenuta irresistibile – della strategia delle “riforme istituzionali”, aperta sul fronte extraparlamentare dalle forze eversive da ultimo operante sotto i simboli della “loggia massonica P2”, e sul fronte parlamentare dalla destra democristiana, con la convergenza del Psi di Craxi e di Amato.
Le forze conservatrici, che non hanno mai considerato legittimo l’ordinamento democratico-sociale nato nella Resistenza e canonizzato nella Costituzione repubblicana del 1948, hanno al fine trovato la strada aperta alla sua delegittimazione che avevano invano predicato per un quarantennio, quando nello stesso PCI si è passati all’improvvisa e improvvida posizione ingraiana (1983) – volta a dare al potere di vertice del governo una forza istituzionale “pari” a quella che il Parlamento aveva conseguito con la “centralità” degli anni ‘70-’75 – e poi a quella tanta attesa dalla destra sociale e politica volta al superamento del metodo elettorale “proporzionale”, che negli anni ’90 si è tradotta nell’emanazione dell’attuale legge elettorale “uninominale”, con appendice proporzionale, sull’onda dei referendum promossi da gruppi della borghesia di destra e di sinistra favorevoli alla governabilità” e contrari sia al proseguimento della politica di democratizzazione della società e dello stato, sia alle conquiste effettuate dal movimento operaio e democratico negli anni tra il ‘60 e l’80.
Gli eventi sociali e politici degli anni ’90 – segnati dall’assunzione in prima persona da parte dei partiti del cosiddetto centrosinistra della bandiera della “riforma” della “Seconda Parte della Costituzione” riguardante la forma di governo (con la presidenza bicamerale di D’Alema) – documentano la mistificatoria strategia volta a presentare come tra loro “separabili” i Principi Fondamentali (artt. 1-12), la Prima Parte (artt. 13-54) e la “Parte Seconda” (artt. 55-139) della Costituzione. E ciò contro la chiara consapevolezza di quella interdipendenza di tutte le norme costituzionali, sulla cui base si sono svolte le lotte civili, politiche e sociali degli anni 1948-78. Sicché si è finito per predicare che le scelte per una qualunque forma di “presidenzialismo” (elezione diretta del capo dello stato o del primo ministro), nonché per il “federalismo” (più o meno truccato, o strisciante) non siano suscettibili di intaccare i “diritti fondamentali”, e quello che viene chiamato “stato sociale”.
Nel volgere di quegli anni, nei quali gli “istituti” della democratizzazione avviata nei decenni precedenti sono stati travolti in nome della “modernizzazione” e della privatizzazione di beni e servizi pubblici, la cultura giuridica si è mostrata corriva alla deriva in cui si è precipitati dopo la rimozione delle pregiudiziali su cui i socialcomunisti avevano costruito, con i cattolici popolari, il patto costituente per conseguire la democrazia sociale sottoponendo politicamente e socialmente a controllo il potere di accumulazione delle imprese. Sicché la problematicità oggi “a la page” nella dottrina italiana fregiantesi tuttora dell’emblema di “cultura giuridica democratica”, in nome di un’enfasi riduttivamente “antiberlusconiana” (mentre le forze più significative del capitalismo sono consentanee con il c.d. “ulivo), è rappresentata dallo slogan della cosiddetta “democrazia costituzionale”, rievocante una fase nella quale si puntava come obiettivo “minimo” – quando dilagava il totalitarismo nazifascista – ad una fissazione di diritti fondamentali di libertà e alla creazione di un’organizzazione politica imperniata su organi elettivi.
Oggi una posizione culturale di tal genere – nonostante l’enfasi predicatoria che vede assolutizzare i “diritti” – nasconde consapevolmente a quanti non sono in grado di leggere i risvolti ideologici dello specialismo “giuridico”, che la Costituzione italiana del 1948 ha qualificato “fondamentali” non già i soli diritti enucleati dal contesto dei rapporti sociali, ma i “principi” di democrazia e solidarietà “politica economica e sociale”, entro i quali – sviluppando una dialettica permanente in vista di obiettivi di libertà volti all’”emancipazione” sociale – si rende possibile creare e garantire i diritti individuali a tale titolo classificabili anch’essi come “fondamentali”.
Con una “democrazia costituzionale”, che sì “separa dalla questione sociale” che è all’origine di una strategia democratica internazionale e nazionale nel segno della “pace e della giustizia sociale”, si ritorna indietro di quasi un secolo: senza chiarire che i diritti considerati “fondamentali”, con una assolutizzazione “ideale” sganciata dai rapporti sociali e quindi “reali”, sono destinati ad essere privi di forza, come dimostra clamorosamente la disciplina sulle Comunicazioni di massa (TV, radio, stampa), dove il pluralismo che si dice negato dalla c.d. “legge Gasparri” è la manifesta conseguenza della cancellazione del pluralismo operata dal sistema maggioritario e del “potere della maggioranza” che esso determina. E ciò anche perché – contestualmente – si auspica o avvalla una forma di governo verticistica – mentre ci si asserisce “di sinistra” – che è la copia dei modelli politico-istituzionali propri dei sistemi anglo-americani, che sono notoriamente pseudodemocratici, quale espressione di un “autoritarismo” che differisce dal “totalitarismo” solo perché “ammette” un altro partito – e dicasi un solo altro partito – relegandolo fuori dell’area di governo, con compiti estranei al potere di indirizzo politico e, quindi, di mero “controllo”, come mostra oggi anche da noi l’impotenza di un “ulivo” impedito istituzionalmente e a causa del suo ripiegamento teorico-politico, di interferire sulle decisioni e nelle divisioni della “casa delle libertà”.