di Marco Rizzo
C’è sempre un inizio. Come il virus infetta il corpo, come la ruggine logora il ferro. Ci chiediamo: cosa ha portato la grande esperienza storica e politica dei comunisti in Italia alla irrilevanza politica e miseria anche odierna? Durante questo percorso, su cui ha certo inciso anche il contesto esterno, ci sono state frenate e accelerazioni, avanzate ed anche sconfitte. Alla fine il più grande partito comunista d’Occidente – il partito di Antonio Gramsci – è arrivato alla sua consunzione.
E’ chiaro che chi, come noi, vuole ricostruire un vero Partito Comunista in Italia, non può esimersi da una analisi seria e approfondita di questi perché. Non affretteremo conclusioni che solo con un percorso condiviso di rilettura del passato si potranno avere, ma è utile fare un po’ di chiarezza qui ed ora. Abbiamo ritenuto strategico analizzare la storia del PCUS e dell’URSS, serve farlo anche per l’ Italia, il nostro Paese.
La temperie in cui Palmiro Togliatti dirige il PCI post-resistenziale era innegabilmente avversa ad una reale possibilità di ‘fare la rivoluzione’ in Italia.
Detto questo, non si può ignorare in che misura ed in che cosa Togliatti abbia fatto, o non abbia fatto, nel fare pesare pesare i ‘rapporti di forza’ nell’arena italiana.
Non essendo trotzkisti, non saremo così falsi e faziosi nel dire che il “tradimento” della rivoluzione inizia con la svolta di Salerno, tuttavia sia questa, sia i suoi successivi sviluppi esigono una riflessione più approfondita che il nostro Partito dovrà affrontare. Sarebbe infatti troppo semplicistico liquidarla come un “tradimento”, sic et simpliciter. Nelle date condizioni del 1944 il PCI, con il Nord del Paese occupato dai tedeschi e dai loro servi fascisti e il Sud “liberato” dagli angloamericani (che appoggiano la monarchia e il debole governo Badoglio), lavorò per emarginare le posizioni attesiste di chi voleva delegare agli eserciti alleati la liberazione dell’Italia, coinvolgendo invece le masse popolari nello sforzo, anche militare, antifascista. La linea del Congresso di Bari, che ribadiva la pregiudiziale antimonarchica e propugnava il rovesciamento di Badoglio e la sostituzione del suo governo con un governo del CLN, si stava rivelando impraticabile e paralizzante. E’ opportuno riportare quanto scrive a questo proposito Pietro Secchia:
«Se non ci fosse stata la guerra e la necessità di vincerla per schiacciare il nazismo, noi avremmo potuto e saputo risolvere rapidamente la situazione con un’azione rivoluzionaria delle masse. Ma appunto perché c’è la guerra, che è malgrado tutto la nostra guerra, dobbiamo tutti evitare che le masse, giustamente esasperate da una situazione che non è più tollerabile, tentino di risolvere spontaneamente la situazione in forme che potrebbero essere una limitazione dello sforzo di guerra.» [P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975 ]; e, più oltre:
«Il Consiglio nazionale del PCI iniziò i suoi lavori a Napoli il 30 marzo con un rapporto di Velio Spano sulla situazione del paese e del partito, dal quale emergevano l’imbarazzo di chi era ormai convinto dell’impossibilità di risolvere la situazione restando sulle posizioni tattiche del congresso dei CLN di Bari e la logica della vecchia impostazione: “costituendo un governo democratico, che è il nostro obiettivo, noi faremo fare un passo decisivo in avanti alla situazione italiana e ci metteremo contemporaneamente in condizione di dare un maggiore contributo allo sforzo di guerra”. Togliatti nel suo intervento, sempre sulla base di un’analisi della situazione italiana ed internazionale, impostò la questione in questo modo: “Nessuna libertà potrà essere garantita al popolo italiano fino a che i nazisti non saranno stati cacciati dal territorio nazionale. Bisogna quindi intensificare lo sforzo di guerra per liberare il paese. Costituiamo dunque un governo di unità nazionale e in tal modo faremo fare anche un passo notevole alla situazione.” Dimostrò che bisognava uscire da una situazione caratterizzata dall’esistenza, da una parte, di un governo investito del potere ma privo di autorità perché privo dell’adesione dei partiti di massa, dall’altra parte di un movimento di massa autorevole, ma escluso dal potere. “Tale situazione, mentre alimentava confusione e disordine, stancava e deludeva le masse “creando un ambiente favorevole agli intrighi reazionari”. Il Consiglio nazionale approvava l’indicazione e l’iniziativa presa dal compagno Togliatti di costituire un governo di un’unità nazionale.» [P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975 ].
Anche a seguito dell’avvenuto riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’URSS, ai fini di ottimizzare e massimizzare lo sforzo bellico, l’idea di sviluppare, in quel momento, un fronte di lotta e di alleanze, sociali e politiche, il più ampio possibile contro un nemico fortissimo e mostruoso, rinviando ad un secondo momento la questione istituzionale, era di per sé valida e imposta dalle condizioni oggettive (lo stesso Secchia virgoletta sempre il termine “svolta”).
Si tratta di capire, invece, perché e come questo “compromesso temporaneo” abbia perso il suo carattere di temporaneità, finendo per oscurare gli obiettivi rivoluzionari in riferimento alla questione, centralissima per i comunisti, dello stato e del potere.
Assolutamente da respingere la tesi, secondo la quale ciò fu una conseguenza della Conferenza di Yalta. A Yalta, Stalin, Roosevelt e Churchill non divisero il mondo in sfere d’influenza talmente definite da segnare per sempre le sorti dell’Italia in modo netto ed irrevocabile con quella “spartizione”. Infatti nelle Conferenze di Teheran (1943), della stessa Yalta (febbraio 1945), e Postdam (luglio 1945) si decise in primo luogo del problema tedesco e si definirono ipotesi di assetto provvisorio delle nazioni europee, in attesa di poter realizzare il principio dell’autodeterminazione dei popoli, con la conseguente scelta del sistema sociale. Crediamo, piuttosto, che le deviazioni dal percorso rivoluzionario originino da errori di valutazione della situazione e delle prospettive da parte di Togliatti e di parte del gruppo dirigente del PCI.
L’insegnamento della Terza Internazionale fu fondamentale nella vittoria sul nazifascismo, consentendo di acquisire stima, fiducia e simpatia da parte delle masse popolari. Nel corso della Resistenza nei vari paesi europei, i partiti comunisti che ne avevano fatto parte, piccoli e clandestini, raccolsero gli elementi migliori espressi dalla lotta antifascista e crebbero enormemente perché seppero unire al compito della lotta alla barbarie nazifascista l’obiettivo dell’emancipazione delle classi oppresse. E’ ciò che fece anche il PCI, che crebbe molto, diventando, per numero di aderenti, il primo partito popolare. Sempre l’eredità delle linee direttive della Terza Internazionale imponeva di non delegare la liberazione dei popoli agli eserciti alleati, né che la Resistenza al nazifascismo si manifestasse come fatto spontaneo e disorganizzato senza riferimenti politici, né ancora che il crollo delle forze dell’Asse comportasse il ritorno alle forme statuali prebelliche.
Quindi, una volta sconfitto lo Stato fascista, si pensava di sostituirlo con uno stato di tipo nuovo che non fosse la semplice riedizione del vecchio stato liberale. Quali dovevano essere le sue caratteristiche? La teoria comunista dello Stato prevede che, una volta rovesciato il dominio borghese con la rivoluzione, non sia sufficiente semplicemente sostituirsi alla borghesia alla guida dello stato, ma sia necessario distruggere la “macchina” dello stato borghese per crearne un’altra, espressione della nuovo potere proletario. Quale forma concreta doveva assumere il nuovo Stato, su quale tipo di istituzioni doveva basarsi? Questo problema aveva trovato risposte sempre più precise con la diffusione delle sollevazioni rivoluzionarie, dalla Comune di Parigi fino all’Ottobre Sovietico. Gli stati usciti dalla guerra e dalla Resistenza avevano, invece, forme non ancora definite; il potere non era saldamente e definitivamente in mano a nessuna delle classi, al relativo potere di una classe faceva da contrappeso il contro-potere della classe antagonista (dualismo di potere), con rapporti di forza variabili in base a diversi fattori, tra cui non ultimi i rapporti di forza internazionali, ma la battaglia per gli assetti istituzionali in Italia non era così definita. I Comitati di Liberazione Nazionale avrebbero potuto costituire il modello di una nuova macchina statale, in senso marxista-leninista e in un’accezione estensiva di fronte popolare, con cui sostituire la vecchia macchina statale, distrutta, nel nuovo Stato post-resistenziale. Molti Paesi dell’Europa Orientale, sconfitte le componenti borghesi anche per via parlamentare, diventarono infatti democrazie popolari, utilizzando quelle forme di coalizione politica e organizzazione statuale che si erano affermate nella fase resistenziale e risolvendo il dualismo di potere a favore del proletariato.
Una corretta analisi marxista-leninista dimostra che in Italia, dal 1944 al 1947, si è verificata appunto una tipica situazione di dualismo di potere, dove al potere “legalmente costituito” della monarchia, della grande borghesia e dei governi che ne furono espressione, faceva da contraltare il contro-potere di un proletariato che poteva contare su un’avanguardia, anche armata, di 2.500.000 uomini, inquadrati nelle fila del PCI, in forte analogia con il dualismo di potere tra governo provvisorio e soviet che si manifestò nella seconda fase della Rivoluzione Russa. Mentre in Russia il dualismo si risolverà nel modo che tutti conosciamo, in Italia darà vita al governo di unità nazionale, del quale faranno parte i partiti antifascisti, compreso il PCI, fino al 1947. Gli errori tattici e di valutazione di Togliatti e della maggioranza del gruppo dirigente del PCI di quegli anni risultano comprensibili come tali – e non semplicisticamente liquidabili come tradimento -, solo alla luce di questa analisi.
Un primo errore è costituito dall’accettazione dei meccanismi e delle forme della democrazia borghese a priori. Fermo restando il rinvio della questione istituzionale a liberazione avvenuta e guerra terminata, sarebbe stato indubbiamente più coerente agli insegnamenti del marxismo-leninismo non abbracciare tout court la soluzione dell’assemblea costituente eletta a suffragio universale (in un paese disaffetto all’esercizio dei diritti democratici, largamente analfabeta e manipolato dai preti!), ma rimandare a quelle forme di coalizione e organizzazione del potere che stavano concretamente scaturendo dalla Resistenza. Connesso a questo, il secondo errore: l’assolutizzazione graduale di un compromesso che sarebbe dovuto essere temporaneo e limitato al periodo di belligeranza, fino all’accettazione definitiva della democrazia e delle istituzioni borghesi come unico terreno di lotta. Crediamo che le cause di queste due deviazioni debbano essere individuate, da un lato, nella sopravvalutazione delle capacità del Partito di risolvere a favore del proletariato il dualismo di potere in atto agendo principalmente sul terreno scivoloso della democrazia parlamentare borghese e, dall’altro lato, dalla sottovalutazione della forza del Partito e della sua capacità di resistenza e dissuasione di eventuali tentazioni reazionarie sul terreno a lui più consono, quello dello sviluppo delle lotte di massa, mai venute meno, neanche durante la clandestinità e la lotta armata. La prima considerazione ci insegna come non sia scontato che una grande forza organizzativa e militante si traduca automaticamente in un analogo peso elettorale. Pensiamo al risultato risicato del referendum monarchia-repubblica o all’insuccesso elettorale del Fronte Popolare nel 1948. La seconda considerazione spiega il timore, esagerato, delle possibili reazioni, interne e internazionali, di fronte a qualsiasi radicalizzazione dello scontro di classe. Pensiamo all’inerzia con cui viene accettata l’esclusione del PCI dal governo del Paese nel 1947, ma anche all’inserimento dei Patti Lateranensi e del Concordato nell’art. 7 del progetto di Costituzione per paura di una guerra di religione, minacciata da Pio XII. La valutazione sbagliata circa la durata e la tenuta dell’unità antifascista, considerate ormai come scontate, darà origine a provvedimenti quali l’amnistia ai fascisti e sfocerà poi nell’imprevista espulsione dei comunisti dal governo. Questa espulsione risolverà definitivamente il dualismo di potere a favore della borghesia. Infatti, l’analisi storica marxista-leninista ci insegna che le situazioni di dualismo non sono eterne, ma storicamente determinate e limitate nel tempo, in quanto vengono risolte, a favore di una classe o dell’altra, dalla dialettica della lotta di classe in un insieme di condizioni oggettive e soggettive, un fatto che era sfuggito totalmente alla maggioranza dei dirigenti del PCI di allora.
Lo stato italiano di oggi non ha nulla a che spartire con lo stato nato dalla Resistenza, in quanto conclamatamente borghese per via della soluzione che il dualismo trovò nel 1947. Non riconoscendo il dualismo che caratterizzò lo Stato italiano nato dalla Resistenza dal 1944 al 1947, i revisionisti e gli opportunisti identificano lo Stato italiano di oggi con lo Stato post-resistenziale, in una visione aclassista della storia. Specularmente, tutte le ricostruzioni storiche da parte delle formazioni estremistiche di ultrasinistra presentano lo Stato italiano dell’immediato dopoguerra come uno Stato borghese puro e semplice, fin dalla sua nascita, negando anch’esse il dualismo di potere e la lotta di classe che si svolgeva al suo interno. Si tratta di una rappresentazione appunto contraria ma simmetrica a quella che danno i revisionisti.
Il Comitato di Liberazione per l’Alta Italia (CLNAI) aveva nelle brigate partigiane e nei GAP le massime espressioni organizzative di lotta armata contro il potere nazifascista. A differenza di quanto avveniva nei CLN delle zone “liberate” dagli alleati, dove la passività delle masse era pressoché totale, il CLNAI, su spinta del PCI, si preoccupò costantemente del loro coinvolgimento nella guerra di liberazione, a partire dall’organizzazione dei grandi scioperi del 1943. Il CLNAI e il PCI al suo interno avevano ben presente l’indispensabile collegamento tra lotta partigiana e lotta politica e sociale di massa, magari innescata anche da semplici rivendicazioni economiche. Queste particolari condizioni fecero maturare vere e proprie esperienze di governo popolare, guidato dal CLNAI, in forme che avrebbero potuto essere adottate per la futura organizzazione statuale dell’Italia liberata. Nelle fabbriche, ad esempio, vennero istituiti i Consigli di Gestione, un embrione di democrazia consigliare simile a quello sovietico. Le diverse condizioni oggettive nelle zone occupate dagli angloamericani, la debolezza del PCI in quelle regioni e la conseguente mancanza di esperienze soggettive analoghe a quelle maturate al Nord, spiegano il relativo predominio delle “alchimie istituzionali” nel CLN centrale. Mentre in Alta Italia, liberazione dal nazifascismo ed emancipazione sociale formano un unico, inscindibile obiettivo, a livello centrale questa unicità viene a mancare, per cui non solo la battaglia sull’assetto istituzionale, sulla forma, viene rimandata a tempi successivi, – cosa ammissibile, come già detto -, ma anche la battaglia sul contenuto sociale del nuovo stato, sulla sua sostanza di classe, sfuma in una prospettiva temporale indefinita, sacrificata alle sole esigenze dello sforzo bellico. Fu questo, probabilmente, il più grave errore di valutazione di Togliatti e della maggioranza del gruppo dirigente del PCI. La “svolta”, comunque, passò a maggioranza, ma venne interpretata e attuata in modo diverso al Nord, rispetto al Centro e al Sud. Per Pietro Secchia e il gruppo dirigente del Nord, l’apertura a nuove forze e componenti sociali, il loro coinvolgimento attivo nella lotta di liberazione non doveva offuscare gli obiettivi di giustizia e emancipazione, ma favorire la lotta contro gli elementi antinazionali: attendisti, industriali antifascisti a parole, ma collaborazionisti nei fatti, alti ufficiali che aiutavano fascisti e tedeschi nella caccia ai partigiani, doppiogiochisti e così via. A livello centrale, però, si invitava alla cautela e alla moderazione, per non turbare le componenti più borghesi della coalizione antifascista. Con il feticcio dell’unità a tutti i costi e della salvaguardia degli equilibri iniziava, in quegli anni, ad incistarsi nel corpo del partito quel virus del “cretinismo parlamentare” che lo avrebbe infettato per tutti gli anni a venire, fino alla sua dissoluzione.
Nel CNL si manifestarono da subito divergenze sul modo di condurre la lotta e sulla funzione dei CLN stessi a liberazione avvenuta. La Democrazia Cristiana ed il Partito Liberale li volevano organi transitori. Per comunisti, azionisti e socialisti, questi organismi dovevano invece trasformarsi in strumenti di un nuovo ordinamento politico-sociale.
Il comunista Eugenio Curiel, giovanissimo scienziato e studioso di marxismo-leninismo, ucciso a Milano dai fascisti pochi giorni prima della Liberazione a soli 33 anni, teorizzò una forma statuale che indicò come “democrazia progressiva”, caratterizzandone così la funzione: “ garantire le condizioni politiche e sociali migliori all’opera della ricostruzione, senza assegnare per questo un confine precostituito tra problemi della ricostruzione e problemi dell’edificazione della società socialista…dobbiamo lottare perché la democrazia progressiva si realizzi superando i limiti e gli ostacoli che le vorranno frapporre le forze reazionarie, dobbiamo lottare perché la rottura si operi nelle condizioni a noi più favorevoli, quindi in condizioni tali che la rottura venga ad essere la meno costosa possibile per la classe operaia e per tutta la nazione”.
La formulazione della democrazia progressiva fu fatta propria dal PCI al suo V Congresso. Essa era intesa, nell’accezione di Curiel, come trasformazione rivoluzionaria dello Stato, che avrebbe dovuto basarsi appunto sui CNL. Va rilevato come in Curiel siano ben presenti sia il nesso tra liberazione e costruzione del socialismo, sia l’ineluttabilità della rottura con la borghesia, cioè la temporaneità del compromesso con questa. Uno Stato di tale genere avrebbe determinato condizioni massimamente favorevoli per la rottura rivoluzionaria e per la conquista dell’egemonia da parte dei comunisti. Nel rapporto alla Direzione del PCI del marzo 1945, Pietro Secchia affermò: “Prima, durante e dopo l’insurrezione, dovremo riuscire a coprire le nostre città e le nostre campagne di una rete di migliaia e migliaia di Comitati di liberazione, di fabbricato, di villaggio, di officina. Saranno questi gli organismi popolari su cui poggia il movimento insurrezionale, sui quali poggerà il governo democratico in Italia. Senza questi organismi, base del potere popolare, è vano parlare di democrazia progressiva”.
Purtroppo, è difficile trovare una citazione di Togliatti che si riveli in sintonia con Curiel e Secchia a proposito dei CLN e della democrazia progressiva. “Noi desideriamo – disse in un discorso a Napoli nel 1944 -, che al popolo italiano venga garantito nel modo più solenne che, liberato il paese, un’Assemblea nazionale costituente, eletta a suffragio universale libero, diretto e segreto, da tutti i cittadini, decida delle sorti del paese e della forma delle istituzioni…Questa posizione è democraticamente la più corretta… Ponendo alla base del nostro programma politico immediato la convocazione di un’Assemblea costituente dopo la guerra, ci troviamo in compagnia degli uomini migliori del nostro Risorgimento, in compagnia di Carlo Cattaneo, di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, e in questa compagnia ci stiamo bene”.
Togliatti non si richiama evidentemente alla storia e al patrimonio ideale del proletariato
Al già citato errore, la scelta aprioristica delle forme della democrazia borghese a scapito delle forme che scaturivano direttamente dalla lotta partigiana e popolare e alla dubbia scelta delle compagnie, almeno per quanto riguarda Cattaneo e Mazzini, somma qui un altro, esiziale errore: la concezione della Resistenza come questione di indipendenza nazionale a prescindere dai suoi contenuti e motivazioni sociali, come continuazione ideale del Risorgimento. Gramsci definì il Risorgimento come “rivoluzione incompiuta”, mettendo in luce la debolezza e lo spirito compromissorio della borghesia italiana, incapace di costruire fino in fondo il proprio stato nazionale senza un compromesso di classe con l’ancien régime. Stalin, nel saluto alle delegazioni estere, presenti al XIX Congresso del PCUS, sottolineò come fosse compito dei comunisti “raccogliere le bandiere che la borghesia lascia cadere” nella corsa alla massimizzazione del profitto, perseguita calpestando i principi stessi delle rivoluzioni borghesi. Tuttavia, per Gramsci come per Stalin, il compimento della rivoluzione borghese, inteso come realizzazione effettiva dei proclamati principi di libertà e eguaglianza, può avvenire compiutamente solo “dopo” la rivoluzione socialista, non “invece” di questa. E’ evidente come, con queste premesse, la democrazia progressiva venga svuotata di ogni contenuto rivoluzionario, per diventare una chimera all’insegna di un gradualismo che nulla ha a che vedere con l’insegnamento marxista-leninista. L’idea che fosse possibile “superare” il capitalismo attraverso la sola via parlamentare e con graduali riforme che introducessero “elementi di socialismo” era e rimane infondata e antiscientifica.
In merito alla mancanza delle condizioni oggettive per una rivoluzione proletaria, Pietro Secchia, allora responsabile dell’organizzazione del PCI, fece saggiamente notare (per quei tempi una precisazione del genere suonava come una critica serratissima) che “..tra il fare l’insurrezione e non far nulla ce ne passa..” ed è chiaro che il riferimento era diretto alla politica togliattiana, che scelse la via istituzionale come strategica sin dal 1944, quando l’esperienza di governo popolare dei CLN avrebbe potuto porre altre prospettive. La cacciata dei comunisti dal governo nel 1947 segnò il punto di non ritorno di tale strategia: quell’evento così significativo non ebbe alcuna reazione, nemmanco uno sciopero generale politico, al massimo qualche strillo sull’Unità.
Si può, quindi, affermare che il PCI, dopo la Liberazione, abbia perso “a tavolino” la battaglia per la conquista del potere, senza aver mai tentato neppure di ingaggiarla. In tutti i momenti decisivi ha prevalso la linea togliattiana della difesa dello “Stato democratico, nato dalla Resistenza”.
Dopo quanto detto finora, non si può passare sotto silenzio la politica dei quadri condotta da Togliatti, con la quale nel PCI di fatto veniva esautorato il gruppo dirigente proveniente dalla Resistenza, sostituendolo con funzionari certamente di qualità ma di estrazione borghese, privi dell’esperienza della clandestinità e della resistenza armata.
Togliatti costruì la svolta dell’VIII Congresso in modo, per quanto possibile, indolore. Fu indetta la IV Conferenza Nazionale in preparazione del congresso, la quale decise la sostituzione di ben il 30% dei dirigenti del partito con nuovi funzionari e quadri politici. “Riguardo all’anzianità del partito, fra i delegati alla IV Conferenza Nazionale , rispetto al VII Congresso, vi fu un’accresciuta partecipazione di elementi entrati nel partito dopo il 25 aprile 1945”.
Le conclusioni della Conferenza, di fatto, anticiparono l’VIII Congresso (1956): fu appunto allontanata dai vertici una gran parte dei dirigenti formatisi nel fuoco della lotta partigiana, sostituiti da giovani quadri, entrati nel partito dopo il 25 aprile. A quattro giorni dalla chiusura della Conferenza venne formata una nuova segreteria, dalla quale fu escluso uno dei più prestigiosi rappresentanti della generazione che aveva combattuto in Spagna e poi in Italia, nella clandestinità e nella Resistenza: Pietro Secchia. Dall’VIII Congresso in poi, lo stato borghese italiano verrà identificato con lo “Stato uscito dalla Resistenza”, la cui salvaguardia acritica diventerà il punto centrale del programma del PCI fino al suo scioglimento. Quel Congresso sanzionò ufficialmente e irreversibilmente la svolta revisionista- khruscioviana del PCI. Non a caso Togliatti disse: “Noi comunisti italiani siamo stati quel settore che ha dato un maggior contributo alla progressiva elaborazione di queste posizioni nuove (XX Congresso del PCUS)…”. “Il XX Congresso ha constatato che oggi il socialismo non è più limitato ad uno Stato, ma è diventato un sistema mondiale di Stati… Da queste constatazioni sono derivate parecchie conseguenze che riguardano il nostro orientamento politico generale, la nostra strategia, la nostra tattica. Prima grande conseguenza è la evitabilità della guerra … Il XX Congresso ha ricavato anche la conseguenza che la marcia verso il socialismo prende aspetti diversi da quelli che ha avuto nel passato: non è più indispensabile…la via dell’insurrezione come si dovette fare in Russia nel 1917; è possibile giungere ad attuazioni socialiste seguendo l’utilizzazione del Parlamento”.
Con queste parole, pronunciate all’VIII Congresso del PCI, Togliatti assume a bagaglio ideologico del partito gran parte delle deviazioni revisioniste di Khrusciov, dalla teoria della coesistenza pacifica e dell’evitabilità della guerra, al parlamentarismo come percorso per giungere al socialismo. Ci si può chiedere se lo fece convintamente o sulla base della considerazione della necessità di sostenere comunque l’Unione Sovietica, soprattutto dopo i fatti di Ungheria. Resta il fatto che quelle scelte avvieranno definitivamente il PCI sulla strada del revisionismo.
La storia degli anni successivi dimostra che la borghesia italiana, diventata nel 1947 detentrice assoluta del potere statale, lo usa con lo scopo manifesto di piegare la classe operaia e di scompaginare e mettere all’angolo il Partito Comunista. Gli episodi di repressione e provocazioni negli anni bui del governo Scelba ne sono la riprova. In questa situazione la politica il PCI si limitò alla difesa del proprio diritto all’esistenza e alla difesa della legalità “democratica”, incapace di contrattaccare in modo incisivo. Con il passare degli anni, il feticcio dell’unità interna ha sempre viziato il dibattito su linea e programma, facendo sì che le divergenze apparissero in forme attutite, nascoste, ovattate, tali da non rivelarsi mai come contrasti di principio, in un’errata applicazione del centralismo democratico, tesa solo alla perpetuazione del gruppo dirigente in carica. Le migliaia di militanti, che avevano dedicato la loro vita alla passione comunista, ebbero difficoltà sempre più serie ad orientarsi e, tanto più, a schierarsi. Per contro, è innegabile il ruolo fondamentale che il PCI ha svolto nel dopoguerra per l’affermazione dei diritti dei lavoratori, per il miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro, ottenendo conquiste significative, ma non irreversibili, sul piano sociale ed economico. Da qui la nostra difesa del suo ruolo, che rivendichiamo come parte della nostra storia, tanto dagli attacchi di destra e reazionari, quanto da quelli dell’estremismo parolaio e avventuristico. Un conto è la ‘nostra’ critica, da comunisti, a Togliatti, un altro è togliere il suo nome dalla toponomastica delle città, come vorrebbero Alemanno e Volonté, o definirlo un traditore del proletariato, come fanno alcuni cripto-estremisti: a questo ci opporremo sempre.
Nel dopoguerra esistevano consistenti margini, economici e politici, che rendevano possibile un disegno riformista, anche grazie agli equilibri e ai rapporti di forza internazionali tra paesi socialisti e paesi imperialisti. Il PCI seppe utilizzarli con successo a vantaggio della classe operaia e dei lavoratori, ma non fu capace di collegare, o non volle collegare, queste conquiste e le contraddizioni che esse aprivano con l’obiettivo politico della conquista del potere. Si comportò come un buon partito socialdemocratico, ma altra cosa deve essere un partito rivoluzionario, un partito realmente comunista che, tenendo sempre conto dei rapporti di forza esistenti, mantenga inalterata la spinta verso l’obiettivo finale. Certamente, il PCI accumulò, in quel lungo periodo, un immenso e qualificato patrimonio, fatto di militanza, passione e onesti rapporti umani, che ne ha costituito l’eredità più preziosa, purtroppo tradita e dissipata dopo anche dai gruppi dirigenti succedutisi alla guida del tentativo “rifondativo”, che dicevano una cosa, ma ne avevano in testa un’altra, nettamente diversa.
L’VIII Congresso sancì anche la definitiva adozione del concetto di ‘via nazionale al socialismo’. Al di là delle originali intenzioni di Togliatti, vere o presunte, questa non divenne una creativa tattica per raggiungere il nobile scopo tenendo nella dovuta considerazione le particolari condizioni e caratteristiche dell’Italia, ma si trasformò in una teoria che negava la validità delle leggi generali dello sviluppo capitalistico, economico, sociale e politico-statuale, che agiscono in modo sostanzialmente uguale in tutti i paesi, indipendentemente dalle loro peculiarità storiche e culturali, in nome di una indimostrata prevalenza del particolare sul generale. Il suo naturale evolversi fu un continuo e progressivo allontanamento dai principi scientifici del marxismo-leninismo, fino ad approdare alle aberrazioni, teoriche e pratiche, dell’eurocomunismo.
Queste considerazioni ci consentono di comprendere l’ultima parte della storia del PCI, da Berlinguer alla Bolognina.
Sia chiaro che quanto affermiamo lo facciamo col massimo rispetto per tutti quei compagni che in quel periodo hanno dato gli anni migliori della loro vita alla militanza e che anche oggi possono dare un aiuto formidabile alla nostra difficilissima opera.
Fatta salva la statura morale di Berlinguer, assolutamente imparagonabile alle miserie dei politici attuali, occorre riconoscere che il livello della cultura politica di tutti i protagonisti di quel periodo era incommensurabile rispetto agli odierni peones che infestano le istituzioni. Vogliamo paragonare la pochezza dei Berlusconi, dei Grillo, dei Renzi, dei Bersani di oggi con la statura e la capacità dei Nenni, dei Moro, dei Fanfani, persino degli Andreotti e dei Craxi di ieri? Personalità magari discutibili, taluni avversari e nemici, ma tutti politici veri, non inetti corifei di un teatrino che ormai disgusta tutti.
La politica dei quadri, è rivelatrice delle linee politiche che si vogliono imprimere al partito e della sua composizione di classe; Berlinguer promosse, come eredi del gruppo dirigente allora in carica, gli Occhetto, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino, i Bersani, ecc., così come nel successivo tentativo rifondativo furono scelti i Garavini, i Bertinotti, i Giordano, i Diliberto ed i Ferrero. In entrambi i casi, anziché quadri proletari, furono scelti professionisti in carriera della politica o del sindacalismo post-EUR.
L’approfondimento delle note potrà darci decisamente ragione nell’affermare che, se Togliatti mantenne almeno un legame, forse più formale che sostanziale, con il marxismo-leninismo e riconobbe sempre il grande contributo dell’Unione Sovietica alla causa della liberazione del lavoro e dei popoli, Berlinguer abbandonò decisamente qualsiasi riferimento ad esso come teoria rivoluzionaria. Al XIV Congresso del PCI, nel 1975, Berlinguer propose e fece passare la modifica dello Statuto del partito, eliminando i riferimenti all’ideologia marxista-leninista per affermarne la “laicità”. Ciò stava a significare che il partito rinunciava ad avere una propria e definita visione del mondo, aprendosi a quell’eclettismo ideologico che lo renderà privo di autonomia e preda della cultura dominante. Una scelta certamente provocata dall’affanno di dare sempre nuove e maggiori garanzie di “affidabilità” al nemico di classe e agli avversari politici che ne erano espressione, dimenticando che il potere non si elemosina, ma si conquista e che entrare al governo non significa prendere il potere. Era il tentativo di dimostrare che il PCI non doveva più spaventare la classe dominante, in quanto, a parte le “mani pulite”, era come tutti gli altri partiti, avendo finalmente reciso ogni cordone ombelicale con la teoria e gli obiettivi rivoluzionari, tutt’al più un buono e onesto amministratore e gestore di un capitalismo dal volto umano. Questo snaturamento si rese possibile anche grazie alla decisione, presa al XIII Congresso del 1972, di accorpare le cellule di lavoro alle sezioni territoriali, privandole dell’autonomo potere di delega ai successivi congressi. In questo modo, l’elemento proletario, veniva stemperato su un territorio dove prevaleva l’elemento piccolo-borghese, che otteneva la possibilità di esprimere un numero maggiore di delegati al congresso. La componente piccolo-borghese acquisì in tal modo un peso preponderante nelle maggioranze congressuali e, conseguentemente, nelle scelte tattiche e strategiche del partito. Fu proprio quel congresso a eleggere Berlinguer formalmente vice-segretario, di fatto segretario, a causa della malattia che invalidava Luigi Longo.
Nel pensiero di Berlinguer spiccano, tra tutti, alcuni punti cardinali: il compromesso storico, la democrazia come valore universale, l’eurocomunismo, l’accettazione dell’ombrello della Nato, l’adesione alla UE ed infine le considerazioni sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione Sovietica.
Le riflessioni di Berlinguer sull’austerità e sulla questione morale non hanno la stessa forza, né possono in qualche modo controbilanciarne l’effetto devastante. Del resto, se si accetta il capitalismo come orizzonte, non ci si può stupire che esistano clientele e corruzione: se unico valore è il profitto, queste ne sono le naturali conseguenze. Obiettivamente non si può negare che Berlinguer si sia anche trovato ‘schiacciato’ da un corpo politico del partito in cui i cosidetti ‘miglioristi’ avevano in mano i gangli vitali, anche economici (il mondo della cooperazione ad es.) del Partito, da qui l’aggancio fortemente voluto dall’attuale Presidente Napolitano con Craxi e con il sistema di potere che rappresentava e la stessa ‘solitaria’ presenza di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980. Sono episodi significativi che risultano però essere ininfluenti su un quadro dirigente ed un corpo largo di partito in cui la “mutazione genetica” era già avvenuta.
Partiamo dal compromesso storico, cioè da tre scritti di Berlinguer, pubblicati su Rinascita tra il 28 settembre ed il 12 ottobre 1973 all’indomani della eroica morte del Presidente del Cile Salvador Allende per mano dei golpisti di Pinochet prezzolati dagli Usa. Invece di constatare semplicemente che la democrazia borghese esiste solo se la borghesia è saldamente al potere, ma se questo vacilla, – come nel Cile di Allende – e il popolo riesce in qualche modo ad emanciparsi per via istituzionale e democratica, allora la borghesia rinnega le sue stesse regole formali, passando a metodi violenti e terroristici, Berlinguer scrive: “noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa ed il progresso della democrazia…” A parte il trito leitmotiv della “difesa della democrazia”, che non spiega mai di quale democrazia si stia parlando, prescindendo dal suo carattere di classe, Berlinguer confonde le intese politiche con le alleanze sociali tra la classe operaia e gli strati popolari di piccola borghesia, stravolgendo il pensiero di Gramsci. Gramsci sottolineava come il motore della rivoluzione proletaria in Italia dovesse essere un nuovo blocco sociale, egemonizzato dalla classe operaia, che raggruppasse il proletariato e anche elementi di piccola borghesia, suoi alleati. A questo disegno, per Gramsci, è funzionale una ricomposizione delle tre grandi anime del proletariato italiano: quella comunista, quella socialista e quella cattolica, superando così quelle barriere culturali e ideologiche che ne intralciano l’unità di classe. Il compromesso storico di Berlinguer, invece, non è un’alleanza sociale della classe operaia, antagonista al blocco sociale della borghesia, ma un’alleanza politica tra i maggiori partiti in quel momento, il PCI, il PSI e la DC, quest’ultima, per altro, espressione politica della grande borghesia, privata e di stato.
L’analisi di Berlinguer sul golpe in Cile del 1973 non ha nulla a che vedere col marxismo-leninismo, anzi perviene a conclusioni diametralmente opposte. Da un punto di vista leninista, l’errore di Allende è consistito proprio nel non avere neppure cercato di “spezzare la macchina dello stato borghese”, ma di averla accettata, confidando in una maggioranza parlamentare e nella lealtà dei vertici dell’apparato statale. Sarebbe stato necessario sviluppare forti movimenti di massa a sostegno del nuovo governo, creare una milizia operaia armata, cambiare i meccanismi istituzionali, passando a organi eletti non su base delle circoscrizioni elettorali territoriali, ma dei luoghi di lavoro, sospendere l’attività dei partiti che non si riconoscevano nel programma del nuovo governo, decapitare i vertici e modificare le strutture dell’esercito, della polizia, dei servizi di sicurezza, dei ministeri economici, con la massiccia introduzione di fidati elementi proletari. Sarebbe stato necessario, insomma, instaurare la dittatura proletaria. Allende non lo fece e il popolo cileno pagò a caro prezzo questo errore. Berlinguer, come sappiamo, ignorò queste considerazioni.
L’eurocomunismo, come teoria e prassi compiutamente revisioniste e opportuniste, origina dall’incontro di Bruxelles del 26 gennaio 1974 tra Berlinguer e i revisionisti spagnolo e francese, Santiago Carrillo e Georges Marchais, segretari dei rispettivi Partiti Comunisti che sposarono le tesi sul valore della democrazia, da Berlinguer così formulate: …”questa larga convergenza di opinioni riguarda anzitutto il fondamentale problema del rapporto tra democrazia e socialismo come sviluppo coerente ed attuazione piena della democrazia. Essa comprende il riconoscimento del valore delle libertà personali e della loro garanzia, i principi di laicità dello Stato e della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti, dell’autonomia del sindacato, delle libertà religiose e di culto, della libertà di ricerca e delle attività culturali, artistiche e scientifiche…”
Il nome stesso, termine coniato dai giornalisti, ma subito fatto proprio dai revisionisti, marcava già di per sé un netto distacco, addirittura una forte contrapposizione alle esperienze di socialismo storicamente realizzate. Il passo citato evidenzia con chiarezza come Berlinguer avesse fatto proprie categorie tipiche del pensiero borghese, assolutizzandole al di fuori e al di là di qualsiasi contesto storico e sostanza di classe. La visione del socialismo che ne scaturisce per specularità è quella di una cupa tirannide dove questi nobili principi sarebbero negati. Una rappresentazione falsa e del tutto subalterna alla propaganda borghese.
Resta il fatto che le teorie di Berlinguer hanno prodotto il disarmo teorico ed organizzativo di ogni resistenza operaia e popolare in Italia e spianato la strada alle forze più retrive del capitalismo monopolistico, che stanno dissanguando l’Italia e il suo popolo.
L’intervista a Giampaolo Pansa (proprio lui!) sul Corriere della Sera del 15 giugno 1976 sancisce l’accettazione definitiva dell’Occidente capitalistico e della sua micidiale alleanza militare, la NATO, portando a compimento la rottura con il campo socialista che, anche se infettato dal germe del revisionismo khruscioviano, rimaneva pur sempre il più formidabile baluardo di contenimento dell’imperialismo. «Pansa: “…insomma, il Patto Atlantico può esser anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà…” Berlinguer: “Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua….”».
Ed infine, sempre su questo filone, c’è la famosa frase con cui, nel 1981, viene definitivamente reciso il ‘cordone ombelicale’, anche ideale, con la storia del movimento operaio e comunista: “…si è esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre…”.
Assolutamente rilevante è poi la scelta strategica con cui Berlinguer ‘sposa’ il processo di unità europea e capitalistica mentre esistono ancora l’URSS ed il campo socialista. Nella famosa intervista con Eugenio Scalfari, uno dei distruttori del PCI, sul giornale La Repubblica del 2 agosto 1978: «“…Scalfari: “Il 1979 sarà l’anno dell’Europa. E lei ha detto nell’ultima riunione del Comitato Centrale che il PCI ha fatto una scelta europea definitiva. Lo conferma?”. Berlinguer: “Lo confermo. Sappiamo che il processo d’integrazione europea viene condotto, almeno per ora, prevalentemente da forze e da interessi ancora profondamente legati a strutture capitalistiche che noi vogliamo trasformare. Sappiamo che l’integrazione sopranazionale, condotta e guidata da quelle forze, pone vincoli al processo di trasformazione nazionale… Ma noi riteniamo che comunque bisogna spingere verso l’Europa e la sua unità e che la sfida che questo obiettivo comporta vada accettata, portando la lotta di classe, democratica e rinnovatrice, a livello europeo e a coscienza europea…”».
Una rapida considerazione del pauroso peggioramento, sotto tutti gli aspetti, della condizione dei lavoratori e dello stesso ceto medio in conseguenza della dittatura dell’Unione Europea può certo darci la disastrosa portata degli errori teorici e delle deviazioni pratiche di questo segretario del PCI. In questo caso, la presunzione di buona fede non può che peggiorarne il giudizio.
Infine, alcune considerazioni sulla Costituzione italiana, che poteva essere considerata, non a torto, la più avanzata dell’Occidente capitalistico, frutto appunto dei rapporti di forza e della grande, ma non risolutiva, influenza dei comunisti nell’immediato dopoguerra. Mentre le costituzioni sovietiche succedutesi negli anni erano di tipo statico, cioè sancivano, in modo quasi fotografico, l’ordinamento statuale realizzato fino a quel momento e il livello dei diritti già realmente acquisiti, al di sotto del quale non si poteva scendere, ma a partire dal quale si doveva progredire, la costituzione italiana fu concepita come programmatica. Ordinamento e diritti, lungi dall’essere acquisiti, costituivano l’obiettivo programmatico a cui lo Stato avrebbe dovuto tendere. Nonostante la rigidità della procedura di modifica, è proprio questa la sua più grande debolezza: per vanificarla è sufficiente non attuarne gli obiettivi. Inoltre, le modifiche, apportate negli ultimi vent’anni alla sua parte attuativa ne hanno di fatto paralizzato quella programmatica. Disattesa, quindi, stravolta ripetutamente, è di fatto ormai sostituita da una ‘costituzione materiale’ che certifica i rapporti di forza a favore del capitale. Oggi, con l’inserimento del ‘pareggio di bilancio’ voluto dalla BCE e dalla UE, viene definitivamente violentata. “La stalla è aperta da tempo ed i buoi sono scappati”. Non è un caso che, proprio in questo contesto, in quella che si autodefinisce sinistra, si sentano flebili e contraddittorie voci a sua difesa. Tra i suoi attuali difensori notiamo personaggi come Rodotà, il primo presidente del PDS di Occhetto, Giulietti ed altri ancora che nel passato hanno fatto a gara nel mettere sul banco degli imputati le posizioni ideologiche, politiche e rivendicative più avanzate del movimento operaio. Della compagnia fa parte anche il contraddittorio Landini che solo poche settimane fa siglava, insieme alla Camusso e alla CGIL, il più vergognoso e anticostituzionale protocollo d’intesa con Confindustria per stroncare il sindacalismo di base e oggi firma a favore della difesa della Carta costituzionale.
Se, da un lato, i comunisti devono essere in prima fila per evitarne ulteriori modifiche peggiorative e restrittive, è fuori da ogni ragionevole dubbio che la Costituzione oggi vigente non è più la Costituzione del 1948, frutto dell’unità antifascista e della Resistenza. Soprattutto dopo l’inserimento dell’obbligo di pareggio del bilancio, che avrà incalcolabili conseguenze negative sul piano sociale.
Un periodo di soli settant’anni separa l’oggi da quando, grazie alla solida organizzazione del PCI clandestino, si formarono le prime ‘bande’ partigiane che si batterono contro il nazi-fascismo. Oggi, quegli uomini si rivolterebbero nelle tombe se scoprissero quale immonda torsione è stata fatta ai principi che stavano alla base del loro sacrificio. E’ anche per questo che, con immensa modestia ma con ferma convinzione, vogliamo riprendere il loro cammino e ricostruire il soggetto rivoluzionario, il Partito Comunista, evitando tanto le deviazioni parlamentariste, quanto l’errore di una scolastica ortodossia slegata dai processi reali della società.
Queste note non esauriscono certamente il complesso problema dell’analisi della storia, della mutazione degenerativa e della scomparsa del più forte Partito Comunista dell’Europa Occidentale, ma devono servire come prima traccia per una ulteriore, imprescindibile elaborazione analitica collettiva da parte di tutto il partito che stiamo costruendo.
26 settembre 2013