di Gianni Barbacetto
“Ero anch’io uno di quei ragazzi che andavano in Sardegna a guardare le barche dei ricchi. Sognavo di diventare come loro, di avere le donne più belle, le ville, gli yacht”. Così ha confessato, in un momento di sincerità, Flavio Briatore. Lui, il sogno lo ha realizzato. Il bambino con gli occhi sgranati e il naso schiacciato contro la vetrina della pasticceria di Cuneo è riuscito ad avere per sé tutti i dolci in esposizione. Soldi, donne, ville, auto, yacht. Il collezionista di piaceri – molta esibizione, poca raffinatezza, niente cultura – ha raggiunto il suo obiettivo. Quando ce l’ha fatta, ha deciso che il motto della sua vita è: “Se vuoi, puoi”. Lo dicono solo quelli che possono. Quelli che hanno bruciato le tappe, e alla fine dividono il mondo tra vincenti e perdenti, tra quelli che sono dentro e quelli che sono fuori.
Così Briatore è diventato l’icona del successo, dei soldi, della Vita Smeralda. Per molti ragazzi, un modello da ammirare e da copiare. Lui esibisce l’orgoglio della ricchezza e si scaglia contro chi la critica o addirittura la vuole tassare. “Si vuole criminalizzarli, i ricchi, e cioè chi ce l’ha fatta. Invece chi ce l’ha fatta dovrebbe essere considerato un esempio per i giovani”. Non lascia spazio all’ipocrisia: le sue opinioni politicamente scorrettissime le grida senza vergogna. Sui ricchi, ma anche sulle donne: “È giusto che la donna lavori, anche perché altrimenti ha solo motivo di romperti i maroni dal mattino alla sera, invece una che lavora e ha i figli diventa più sicura e matura”.
Ha cominciato presto la sua carriera di playboy: “A sei anni il mio primo bacio, a 14 la prima donna vera, Marilena, credo di Saluzzo. Vera, in quel senso lì”. Inaugura una lunga serie di femmine “in quel senso lì” più ingaggiate che conquistate: Anna Zeta, Beba, Cristina, Nina, Giovanna, Emma… “Mai sopra i 32 anni”. Il botto mondiale lo fa con la top model Naomi Campbell. Più che amate, molto esibite: ma del resto “l’apparire è il mio lavoro”, spiega. Ne seguono tante altre, tra cui la modella tedesca Heidi Klum e le due mogli, Marcy Schlobohm, sposata ai Caraibi quando aveva 18 anni, ed Elisabetta Gregoraci. Entrambe liquidate con un bell’accordo di divorzio.
Il luogo-simbolo della sua filosofia di vita è il Billionaire, locale-discoteca in Costa Smeralda, frequentato da vip e morti di fama, russi e Gerry Calà, arabi e donne bellissime, oltre a un gregge infinito di wanna be che possono finalmente provare l’ebbrezza di sentirsi vincenti per una notte. Il Billionaire “ormai è diventato un marchio, un modo di essere, un modo di vivere”, corregge Briatore. Anche un modo di ammalarsi, visti i contagi Covid dell’estate 2020. Ma tanto “il Covid è un raffreddore”, dice lui che l’ha provato. E comunque, diciamolo: il Billionaire offre “la più alta concentrazione di gnocca per metro quadro”. E con questo ogni discorso è chiuso.
I ricchi sono ricchi perché ce l’hanno fatta; gli altri o diventano fan di Flavio e clienti del Billionaire, o restano afflitti dall’odio di classe e dall’invidia sociale, morbi più pericolosi del Covid. Peggio dell’odio dei poveri c’è soltanto la persecuzione del fisco: invece di dare un premio a chi fa soldi e poi li distribuisce in giro comprando un sacco di cose (ville, yacht, auto, vestiti, viaggi, donne…), lo Stato ti perseguita. A Briatore è successo quando la Guardia di finanza gli ha addirittura sequestrato il suo yacht Force Blue, su cui viveva con la moglie Elisabetta Gregoraci e il figlio Nathan Falco, che allora aveva due mesi. “Il bimbo, abituato a essere cullato dal mare, ha perso il sonno e io”, protestò Elisabetta, “per lo stress ho perso il latte”. Le proteste non commossero la sbirraglia delle Fiamme gialle, che si quietò soltanto quando Flavio, per ottenere il dissequestro del barcone, pagò sull’unghia 5 milioni di euro.
Per capire l’orgoglio dell’arrivato, bisogna conoscere la fatica che ha fatto per arrivare. E cercare almeno di intuire i metodi con cui ce l’ha fatta. Flavio nasce nella provincia più provincia d’Italia, a Verzuolo, vicino a Saluzzo, non troppo distante da Cuneo, nota prima di lui quasi soltanto per una battuta di Totò (“Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo!”). Messo al mondo il 12 aprile 1950 – segno zodiacale Ariete – da due insegnanti elementari che sognano il figlio avvocato, Flavio è poco interessato alla scuola. Gli basta e avanza il diploma di geometra, ottenuto con grande fatica al terzo tentativo (“e con il minimo dei voti”, dice orgoglioso) all’istituto Fassino di Busca, con tesina dal titolo Progetto di costruzione di una stalla. Dalla stalla alle stelle: è il suo destino.
Ma che fatica. Giovanotto, a Cuneo lo ricordano smanioso di fare strada, però senza grandi successi. Frequenta il Country club, allora luogo d’incontro della Cuneo bene e perbene. Prova a fare mille mestieri, dal venditore di polizze assicurative al maestro di sci. Intanto tesse relazioni. Con uomini e donne. È un po’ playboy e un po’ gigolò. Ma il nomignolo che gli sibilano alle spalle, quando passa sotto i portici di corso Nizza, è “Tribüla”: si dice di uno che si arrangia, fa fatica, si arrabatta. Il “Tribüla” lo sa e fa di tutto per scrollarsi di dosso quella fama. Ha fretta di arrivare. A ogni costo.
Il primo salto lo fa diventando l’assistente, il factotum, il portaborse, il faccendiere di un uomo d’affari locale, Attilio Dutto, che aveva rilevato anche la Paramatti vernici (ex azienda di Michele Sindona). Alle 8 di una bella mattina di primavera del 1979 aveva appuntamento con lui, ma arriva in ritardo: gran fortuna, perché l’auto di Dutto su cui doveva salire salta in aria. Un’autobomba alla libanese nella tranquilla Provincia Granda. Il mistero di quel botto rimane irrisolto. Flavio scompare da Cuneo e ricompare a Milano.
Sono gli anni in cui le famiglie catanesi di Cosa nostra tentano la conquista dei casinò del Nord Italia. Briatore a quei tempi bazzica i casinò, in cui porta i riccastri a giocare e a essere spennati come polli. Lo conferma una sentenza del Tribunale di Bergamo che lo definisce capo del “gruppo di Milano” di un’associazione che agganciava personaggi con il portafoglio gonfio, li ingolosiva con affari solo promessi e belle donne molto disponibili e poi li portava a giocare – e a perdere molti soldi – in case private e bische clandestine a Milano e Bergamo, e in hotel e casinò in Jugoslavia e in Kenya.
Tra loro, il re dei gelati Teofilo Sanson (sul tappeto verde lascia 20 milioni di lire), il cantante Pupo (60 milioni), l’armatore Sergio Leone (158 milioni in due serate all’Hotel Intercontinental di Zagabria), l’ex vicepresidente della Confindustria Renato Buoncristiani (495 milioni), l’ex presidente della Confagricoltura Giandomenico Serra (1 miliardo tondo tondo, in buona parte in assegni intestati a Emilio Fede, che faceva parte della bella compagnia).
Al processo, Fede è assolto per insufficienza di prove, Briatore è condannato a 1 anno e 6 mesi a Bergamo, 3 anni a Milano. Ma non si fa un solo giorno di carcere, perché scappa per tempo a Saint Thomas, nelle isole Vergini, e poi una bella amnistia cancella ogni peccato. Cancella anche dalla memoria un numero di telefono di New York (212-833337) segnato nell’agenda di Briatore e riportato nelle carte processuali: è un numero di John Gambino, boss di Cosa nostra americana.
Ma il “Tribüla” ormai ce l’ha fatta. Tornato dall’esilio nei Caraibi, dov’era latitante e ricercato, vola libero tra Milano, Londra, New York. Gran seduttore di donne e di uomini, riesce ad affascinare anche Luciano Benetton, che gli viene presentato dall’amico Romano Luzi, maestro di tennis di Silvio Berlusconi ed esperto di fondi neri. Luciano trova di cattivo gusto la casa di Flavio in piazza Tricolore a Milano, non gli piacciono il suo stile di vita e la sua esibizione di donne e di ricchezza, ma rimane affascinato dalla diversità del suo interlocutore, dal suo lato oscuro: “È un po’ teppista ma è tanto simpatico”, spiega Luciano agli amici quando gli chiedono che cosa avesse mai in comune con quel tipo. Briatore apre qualche negozio Benetton alle isole Vergini e poi si fa strada nel gruppo di manager dell’azienda di Ponzano Veneto.
Dopo i maglioni “United Colors of Benetton”, passa alla Formula 1. Prende in mano la scuderia Benetton e nel 1994 e nel 1995, con Michael Schumacher come pilota, la porta al trionfo mondiale. “La Formula 1 non è uno sport, è un business”, ripete. Un business offshore per definizione. Lo sa bene il consulente (suo e di Benetton) per gli affari offshore, David Mills (che è anche l’ideatore della rete di società estere per cui Berlusconi anni dopo sarà condannato per frode fiscale).
In quegli anni ad altissima velocità, Briatore viene sfiorato da un’indagine dei magistrati antimafia di Catania, che lo intercettano mentre parla con un uomo d’affari catanese con cui discute l’atteggiamento da tenere nei confronti di personaggi che vogliono entrare nel business della Formula 1. L’uomo d’affari gli conferma che Angelo Bonanno, amico di Giuseppe Cipriani (l’erede dell’Harry’s Bar veneziano), ma soprattutto di boss come Tommaso Spadaro e Tanino Corallo, “è uno pesante, inserito in una famiglia pesante”.
Chiusa l’indagine con un nulla di fatto, Briatore sgomma e doppia il traguardo. Quando divorzia da Benetton, si porta via una buonuscita di 34 miliardi di lire (ma nulla è sicuro in questo campo). Continua a esibire, perché apparire è più importante che possedere. Appartamento a New York, casa a Londra, villa a Montecarlo, attico a Parigi, pied-à-terre ad Atene, tenuta in Kenya (“Lion in the sun”). Aereo privato, Falcon 900. “Amo la vita gipsy”, spiega, che sarebbe zingara ma in versione glam, senza roulotte, campi nomadi e povertà. Il suo yacht di 43 metri, Lady in blue, aveva il salone impreziosito da un Fontana e un Giò Pomodoro.
Ma le barche, come le donne, passano: dopo Lady in blue arriva Force Blue e dopo ancora arriva la Guardia di finanza. Ma niente paura: il “Tribüla” di Cuneo è dimenticato, al suo posto c’è un uomo di successo, un cittadino del mondo, un emulo di Donald Trump, un’icona social, un personaggio tv, un protagonista da decenni della vita del suo Paese, un modello per quegli italiani che invece di piangere sulle loro sfighe si rimboccano le maniche e sfidano – in ogni modo e a qualunque costo – la sorte: “Se vuoi, puoi”.
agosto 2021