di Gianni Barbacetto e Antonio Massari
“Come vorrei essere ricordato? Ah, me lo chiede post mortem… vorrei essere ricordato come un buon padre di famiglia”. Così rispondeva Vittorio Emanuele di Savoia a Beatrice Borromeo, che lo intervistava nel 2021 per il film Netflix Il Principe. “Poi ho avuto tutte ’ste storie perché me le hanno fatte, sennò non sarebbero successe mai”.
Vittorio Emanuele è morto ieri (3 febbraio 2024) a Ginevra. A pochi giorni dal suo 87esimo compleanno: era nato a Napoli il 12 febbraio 1937 da Maria Josè e Umberto II, ultimo re d’Italia. Suo nonno Vittorio Emanuele III mise il Paese nelle mani di un dittatore, lo spedì in guerre coloniali feroci, accettò l’alleanza con il nazismo, firmò leggi razziste e antisemite, lasciò portar via migliaia di cittadini italiani ebrei, abbandonò centinaia di migliaia di soldati nelle mani dei nazisti e infine scappò con ignominia.
Anche Vittorio Emanuele, nel suo piccolo, ha generato tragedie (un suo colpo di fucile tolse la vita al giovane tedesco Dirk Hamer). Ma con lui la dinastia è passata dalla tragedia alla farsa. Ha potuto rimettere piede in Italia, ufficialmente, solo nel 2002. Ma Vittorio Emanuele è sempre stato dentro la storia italiana, quella invisibile e sotterranea, legata a lobby riservate, logge segrete, aristocrazie occulte impegnate in affari internazionali, spesso sul crinale tra legalità e illegalità. È stato piduista e mercante d’armi.
Da giovane, fu playboy non brillantissimo e amante di fuoriserie con attitudine a uscire di strada (ciò gli valse il soprannome di Totò la Manivelle). Anche la carriera scolastica risultò un po’ difficile. In compenso fu cultore dello champagne e dei vini pregiati e collezionista di conchiglie. Prese anche il brevetto di pilota: acquistò un biplano con una sobria testa di tigre disegnata sulla fusoliera.
Nel 1970, contro la volontà della famiglia reale, sposò Marina Doria a Las Vegas e con rito religioso a Teheran il 7 ottobre 1971. Due anni dopo nacque suo figlio Emanuele Filiberto. Messa su famiglia, il principe cominciò a dedicarsi agli affari, sotto l’ala dal conte (per tardivo decreto di un Savoia ormai prossimo all’esilio portoghese) Corrado Agusta, allora padrone di una fabbrica d’elicotteri.
Il giudice di Venezia Carlo Mastelloni, in un’inchiesta sul traffico internazionale di armi, raccolse documenti da cui risultava che Vittorio Emanuele, insieme al conte Corrado, non si occupava soltanto di sistemi d’arma da vendere alla Persia, ma anche di triangolazioni proibite dagli embarghi. L’inchiesta poi approdò alla Procura di Roma dove il principe fu archiviato. Nel 1981 i magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo scovarono la lista degli affiliati alla loggia P2 di Licio Gelli. Alla lettera S si legge: “Savoia Vittorio Emanuele, casella postale 842, Ginevra”. Tessera numero 1621.
Le estati le trascorreva a Cavallo, isola esclusiva in territorio francese, lembo di paradiso, pochi gli ospiti ammessi. Peccato che nel 1978 un colpo di fucile rovinò tutto: durante un litigio ad alto tasso alcolico con il playboy Nicky Pende, a Vittorio Emanuele scappò uno sparo nella notte. Gridava: “Italiani di merda, vi ammazzo tutti!”. A farne le spese fu il giovane Dirk Hamer, che dormiva tranquillo nella sua barca. Morirà dopo una lunga agonia. Per quello sparo, il principe fu processato in Francia. E assolto (a parte una condanna a 6 mesi per porto abusivo d’arma).
Negli anni Novanta la stima per Bettino Craxi (Silvano Larini, il fattorino delle tangenti del segretario socialista, era un frequentatore di Cavallo) lascia il posto a quella per Berlusconi: “È un buon manager, può rimettere ordine nell’economia italiana”, dettò Vittorio ai cronisti nel 1994.
Il numero dei suoi affari mai portati a termine è significativo. Ebbe un ruolo a Bandar Abbas, in Iran, dove gli italiani buttarono parecchi soldi (pubblici) per costruire un’acciaieria (Italimpianti) e un porto (Condotte): fu un disastro industriale. In Iran il principe tentò anche un’impresa editoriale, in società con altri amici del club P2, Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din: anche quell’affare finì in niente. Nel 1997 propose ad Arafat e agli amici israeliani la costruzione di un ponte autostradale e ferroviario tra Gerico e Gaza, con la speranza di attirare investimenti del Fondo monetario e della Banca mondiale: non se ne fece nulla.
Nel nuovo millennio – era il 16 giugno 2006 – su ordine del gip del Tribunale di Potenza, Alberto Iannuzzi, e su richiesta del pubblico ministero Henry John Woodcock, viene arrestato con le accuse di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, al falso e allo sfruttamento della prostituzione. È l’indagine che parte dal casinò di Campione d’Italia e che viene poi ribattezzata Vallettopoli.
Sarà prosciolto, dopo che l’inchiesta viene smembrata e inviata in più Procure, e otterrà un risarcimento di 40 mila euro per i giorni trascorsi in carcere. Ma in quei giorni, intercettato e filmato in cella, racconta e mima la sparatoria nella notte all’isola di Cavallo, ammettendo di aver sparato e vantandosi di avere poi fregato i giudici francesi.
Quando, nel 2011, Birgit Hamer, la sorella di Dirk, pubblica il libro Delitto senza castigo (Aliberti), la denuncia per diffamazione. Ma viene condannato a 2 anni (con pena sospesa) per calunnia. “Non ho niente di cui pentirmi. Tutte ’ste storie sono accadute perché me le hanno fatte”. Replica Birgit Hamer: “La sua morte è un sollievo, mai una parola di pentimento”. Le esequie saranno sabato 10 nella basilica di Superga.
(foto) La famiglia Hamer
4 febbraio 2024