Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista
Quando l’interesse privato viene spacciato per “ragione di Stato”
Votiamo SI’ al referendum del 17 aprile!!!
L’Associazione per la Ricostruzione del Partito Comunista invita i lavoratori e le lavoratrici, tutte le comuniste e i comunisti, le migliaia di compagne e compagni che hanno seguito le nostre iniziative su tutto il territorio nazionale in questo ultimo anno e mezzo di intenso lavoro ed in vista della Costituente comunista di giugno a VOTARE SÌ al cosiddetto “referendum delle trivelle” per abrogare la norma che consente alle Società, già titolari di permessi e concessioni, di sfruttare un giacimento entro il limite delle 12 miglia marine anche oltre la scadenza, per tutta la “durata della vita utile del giacimento”, ovvero praticamente per sempre.
La battaglia referendaria è parte integrante della nostra battaglia contro lo sfruttamento e contro la barbarie a cui ci hanno abituato, è il caso di dirlo, da troppo tempo.
Il sì che chiediamo con forza poggia su una lettura organica che lega il destino dell’ambiente al destino che hanno deciso per tutti i lavoratori e per il nostro paese: di fronte allo sfruttamento sempre più indiscriminato, alla razzia e all’accaparramento delle risorse il capitalismo neoliberista vorrebbe relegarci definitivamente al ruolo di silenti spettatori.
Un destino che tuttavia non è ineluttabile se sapremo, a partire da questo sì, trasformare questa particolare battaglia nel contesto politico più ampio della lotta di classe odierna.
Ci sono alcune ragioni tecniche per cui votare SI, e molte ragioni politiche.
Quelle tecniche sono state ampiamente spiegate dal Comitato nazionale per Sì, al quale rimandiamo per chi volesse avere un quadro completo di queste motivazioni, a partire dalla necessità di spostare sempre più l’attenzione dalle fonti di energia fossili a quelle rinnovabili.
Ci limitiamo a ricordare il fatto dirimente: è impensabile ed ingiusto che degli organismi privati abbiano concessioni perpetue per l’utilizzo del suolo (anzi, sottosuolo) demaniale, dunque pubblico.
Questo di fatto chiede il referendum: che si ripristini una norma secondo la quale le imprese che gestiscono le piattaforme di estrazione abbiano delle scadenze per le loro concessioni.
E che in particolare per quelle concessioni che riguardano impianti entro le 12 miglia dalla costa vi sia un graduale esaurimento delle stesse, considerando che il decreto in merito sancisce che non sia più possibile operare nuove trivellazioni entro le 12 miglia: una scelta “naturale” dunque quella di chiedere che le concessioni in atto seguano il destino del disegno strategico approvato.
Ad oggi il dibattito su questo referendum è assai confuso, anche e soprattutto perché viene trasformato (dagli oppositori del SÌ) in un referendum sul Sì o No al petrolio, Sì o No alle trivellazioni in mare vicino alla costa.
Ciò di fatto sposta il dibattito dal vero punto fondamentale, a nostro avviso: ovvero il rapporto Stato- impresa privata.
O meglio, noi crediamo che la scelta per il SÌ sia non solo di banale “coerenza”, ma anche e sopratutto un’occasione politica per ribadire che quando si parla di energia (così come di infrastrutture, di banche, di tutti quegli asset, insomma, che costituiscono la nervatura di un Paese e dei suoi cittadini) non si può prescindere dal chiedere che i gestori di tali risorse siano pubblici e non privati.
Il dibattito falsato su questo referendum è l’ennesima prova di come la gestione dell’energia in un modello capitalistico sia palesemente contraddittoria e fallace.
Gli oppositori al referendum parlano di interessi “di Stato” che sarebbero minati dalla vittoria del SÌ.
Ma quale interesse può essere “di Stato” se gestito da operatori privati, talvolta anche stranieri?
Come si può affermare che la norma che il referendum vuole abrogare sia stata introdotta per difendere l’approvvigionamento “nazionale”, quando gli operatori di tale approvvigionamento non sono pubblici [1] e di fatto hanno la libertà di vendere il gas e il petrolio estratto a chicchessia, seguendo la logica del miglior offerente?
Il fine di questa famigerata norma è in realtà quello di onorare degli accordi presi con i grandi gestori per facilitare le loro attività sul territorio nazionale.
Accordi, peraltro, che nessuno si è mai degnato di rivelare e spiegare in modo trasparente alla collettività.
Quello che si deve affermare con forza è che questa vicenda mostra ancora una volta (come del resto quella della TOTAL in Basilicata) che non è possibile che uno Stato si tiri fuori dalla gestione diretta dei cardini dello sviluppo di un Paese, come quello delle risorse energetiche. Che la nazionalizzazione degli operatori di settore è l’unica soluzione per legare in modo chiaro e democratico il progresso di un Paese con la salvaguardia di salute e ambiente.
Fra l’altro, su questo ultimo aspetto, la propaganda di regime è addirittura ridicola: si tirano in ballo la “preziosità” dei posti di lavoro che si perderebbero con la vittoria del SÌ, dopo che il PD e i suoi sciagurati alleati negli ultimi anni hanno massacrato i diritti dei lavoratori, introducendo modifiche alla normativa sul lavoro (per ultimo il jobs act).
Ancora una volta il destino dei lavoratori viene utilizzato come mera merce di propaganda, inducendo l’opinione pubblica a mettere in competizione la difesa del lavoro con la difesa dell’ambiente, per spostare così l’attenzione dal vero obiettivo, e cioè quello di difendere interessi assolutamente privati e privatistici.
Lo sfruttamento dell’ambiente (conflitto capitale-natura) e quello dei lavoratori (conflitto capitale-lavoro) sono parte della stessa battaglia: la gestione privata e la ricerca di profitto su aspetti quali le risorse naturali ed energetiche porta inevitabilmente a collidere con i bisogni basilari dell’uomo, perdendo una visione generale e sfruttando in modo iniquo sia gli individui che l’ambiente in cui essi vivono.
Anche e sopratutto per questo dobbiamo votare Sì a questo referendum: perché è un’occasione per ribadire con forza le evidenti contraddizioni di un modello di sviluppo che vogliamo cambiare. E che l’unica via di uscita è cambiarlo in senso socialista!
[1] E’ vero che buona parte delle concessioni di cui si parla sono di ENI, ma ahimè dal 1995 ENI è posseduta dallo Stato solo per circa il 30%, e per la precisione dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (4,34 %) e dalla Cassa Depositi e Prestiti (25,76%). Per altro, solo il 45,53% del totale dell’azionariato è italiano! (fonte www.eni.com).